2222
27 Febbraio 2006

Integralisti musulmani e italiani

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa
Se oggi si volesse riscrivere Gli Ultimi Giorni dell’Umanità che Karl Kraus
compose nel 1918, basterebbe sfogliare i giornali di questi giorni e raccogliere
i molti commenti e le molte dichiarazioni fatte attorno all’identità cristiana
d’Europa e alla guerra di civiltà in cui tutti saremmo coinvolti, contro l’Islam
terrorista. Kraus stesso d’altronde si limitò a incollare dichiarazioni
proferite da giornali, parlamenti, ministeri, pulpiti, cattedre: ne venne fuori
un’accozzaglia di luoghi comuni e deliri bellicosi, che ancor oggi evocano le
rumorosissime tenebre in cui l’Europa precipitò agli inizi del ‘900 nella prima
guerra democratica di massa. Tutti i personaggi prendono la parola per dire la
loro – l’ottimista e il pessimista, il politico, l’affarista, il professore, il
prelato, il mendicante – e ne viene fuori una grottesca melma indistinta, che
copre la realtà con la retorica per meglio nasconderla, eluderla, storcerla:
solo il criticone – lo Schnör-gel – un po’ si salva. Gli altri hanno un vizio
comune: ciascuno parla in nome dell’umanità e di tutti i mestieri in cui essa si
scompone, pretendendo di rappresentarla e sbandierarla.

È la fine dell’umanità perché l’ingrediente essenziale del vivere civile in
Europa è scomparso: l’ingrediente che consiste nel ragionare distinguendo, nel
separare ruoli, poteri. Le tenebre sono questa melma, che fonde cultura,
politica, fede, diplomazia, caricatura, godimento estetico, piacere del potere,
pathos patriottico, pubblicità, linguaggio amministrativo, vocaboli giudiziari.
Nel luminoso articolo che Pietro Citati ha scritto venerdì su Repubblica, a
proposito del Commento che ci inonda e finirà per annoiare profondissimamente la
terra, mi è parso di scorgere l’intima verità del momento che stiamo
traversando.

La verità è il venir meno di ogni capacità di giudizio e azione politica, a
scapito di un eloquio che continuamente dà fiato alle trombe pur di evitare le
questioni cruciali. Che guerra è esattamente, quella in cui siamo immersi dal
2001: una difesa dal terrorismo o un’offensiva culturale-ideologica-religiosa? E
cosa vogliamo ottenere in concreto? Che l’avversario sia isolato e debellato,
che i terroristi diminuiscano, o invece che si moltiplichino tramando violenze?
E che difendiamo: una nostra civiltà-identità basata sull’imperio della legge
(rule of law) o un’identità religiosa? Una tradizione di fede o di separazione
tra fede e res publica, fede e politica, fede e diplomazia? Rispondere con
serietà a queste domande vuol dire usare la ragione, dunque cominciare a
distinguere, e proprio di questo oggi si sente tanta mancanza. Sicché vediamo il
prelato parlare come se fosse un politico, il ministro Calderoli comportarsi
come fosse un vignettista, il giornalista commentare come un diplomatico, il
politico parlare come se fosse sacerdote, con contagiosa leggerezza.

Ogni amalgama genera impiastri e ne nasce confusione: l’arte diventa
politica, la religione prende il posto dell’esercizio del potere, il negoziato
diplomatico e il dialogo religioso vengono confusi con il cedimento, come se
solo con l’amato-amico fosse lecito negoziare, dialogare. Non a caso si rarefà
la voce del vero studioso di Islam e religioni: verrebbe preso per criticone,
perché se c’è una cosa che lo studioso sa è che non esiste il Tutto (tutto
l’Islam, l’ebraismo, l’Europa; tutte le critiche satiriche) come rammenta Amos
Luzzatto, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche. Cedendo a questa
propensione verso il Tutto, noi italiani e occidentali assumiamo le sembianze di
chi vogliamo combattere, e misceliamo ogni sorta di funzioni. Diventiamo
integralisti alla maniera di quell’Islam che vuol mettere a tacere i propri
riformatori (i loro criticoni) e che per interesse politico sprezza l’arte della
distinzione: distinzione fra sacre scritture e detti del profeta, tra libri
sacri e profani, tra mitologie ed eventi storici.

Chi viene cancellato in quest’utopia unanimistica è il povero musulmano,
che non vorrebbe veder la propria religione strumentalizzata in una guerra fatta
solo per la conquista o il mantenimento del potere. Ogni minuto andrebbe
ricordato che davvero minacciata, oggi, non è la Danimarca (o l’Europa) ma
l’Islam che aspira a ragionare, dividere, dividersi. Lo rammenta un’inchiesta
del New York Times firmata da Michael Slackman e Hassan Fattah: a tutt’oggi, i
morti per le vignette nei Paesi musulmani sono più di 50, e ben 11 scrittori o
giornalisti attendono un processo – in cinque Paesi tra cui Giordania e Yemen –
per aver pubblicato i disegni ed esaminato le ragioni per cui il fanatismo
violento ha finito col suscitare l’idea che Maometto abbia una bomba al posto
del turbante (New York Times, 22 febbraio).

La confusione di ruoli e attività nasce da ignoranza, la riproduce. Non
l’ignoranza di chi non conosce, sempre scusabile, ma un’ignoranza militante,
saccente. Si ignora che la sanguinaria aggressione contro vignette e occidentali
è innanzitutto fatta per intimidire i musulmani riformatori. Si ignora che la
guerra in Iraq è stata contrabbandata per guerra contro il terrorismo ma ha
moltiplicato enormemente il terrorismo. Si ignora che Baghdad non è sull’orlo
d’una guerra civile (altro luogo comune) ma che l’Iraq vi è sprofondato, con
gran profitto dell’Iran che vorrebbe spadroneggiare sulla regione e trasforma le
truppe guidate dagli Usa in più che convenienti ostaggi. Si ignora che l’unico
modello che possiamo proporre è quello dell’imperio della legge, ma che
l’Occidente lo sciupa con guerre di civiltà, torture banalizzate, disprezzo
ripetuto dell’habeas corpus.

Non per ultimo, s’ignora quel che l’Unione europea è e può essere: un
lamento ricorrente, nella campagna elettorale. In molti commenti (del vescovo
Fisichella, di Pera) l’Europa rifiutando le radici cristiane è descritta come
ignava. Non è vero: gli Stati non hanno dato all’Unione le risorse e la facoltà
di decidere sovranamente una politica estera, e chiederle quello che spetta a
Stati insipienti è irresponsabile. Inoltre, l’Europa è forte per il suo rule of
law e perché separa vocazioni politiche e religiose, anche se parte di tale
forza s’intreccia con la storia del cristianesimo. Nella vicenda delle
caricature è stata l’Europa a difendere i principi laici e la separazione tra
cultura e politica, spesso più dei governi e certo più degli italiani (di
governo e d’opposizione). Il presidente della Commissione Barroso ha difeso la
Danimarca e il diritto dei vignettisti con energia esemplare. I governanti
europei hanno disimparato la politica: il male è loro, non dell’Unione in quanto
tale. Oggi molti di essi ripropongono l’Europa cristiana, ma per screditare
l’Unione dei Venticinque anziché per migliorarla.

Gli integralisti non sanno fare né politica né diplomazia: ciò è vero per
quelli musulmani come per i nostri. È una dappocaggine inevitabile quando si
confonde croce e res publica, quando un verdetto del Consiglio di Stato non si
limita a scongiurare lo strappo del crocifisso dalle scuole ma s’inventa che la
croce è di per sé e automaticamente sinonimo di civiltà laica. I nostri
integralisti detestano gli occidentali attratti dalla critica di sé, e d’un
tratto non sanno più che l’Europa è stata grande quando Pascal contemplò la
possibilità di esecrare il proprio io (il moi haïssable) e quando Montesquieu
denunciò la propensione espansiva dei poteri proponendone la separazione. La
storia per gli integralisti d’ogni tipo è un grumo, come descritto nella Nuova
Enciclopedia di Savinio: «L’intelligenza dell’Europa ha una funzione singolare:
divide e separa, (…) in maniera inappariscente e silenziosa. Lo spirito
europeo odia il grumo. Qualunque grumo si formasse in Europa, è destinato a
sciogliersi sotto questa operante antipatia». Chi è sedotto dal grumo vede
l’Islam alla sola luce del Corano («L’Islam non ha alla base nessuna filosofia
né teologia, si è diffuso con la spada e con la spada continua a far paura»,
dice monsignor De Paolis a Giacomo Galeazzi su La Stampa, il 22 febbraio) così
come altri integralisti vedono nell’ebraismo i massacri dei Cananiti, e nel
cristianesimo (pure fondato rivoluzionariamente sull’amore del prossimo) la
minaccia di gettare increduli e servi fannulloni «nelle tenebre, dove sarà
pianto e stridore di denti».

L’affezionato al grumo è persuaso che l’Europa, più che di politica e
distinguo, abbia bisogno di esaltare soprattutto le radici cristiane: e da
queste radici fa discendere tutto, riesumando l’organicismo tipico degli
ottocenteschi integralisti cattolici e facendo della religione un sostituto
della politica. Fa discendere anche l’idea di reciprocità, niente affatto
inutile in diplomazia ma pericolosa se usata integralisticamente. La reciprocità
non tollera misture integraliste, è da negoziare con cautela il più delle volte
asimmetrica, altrimenti diventa dinamite: minacciamo di rinunciare alla nostra
civiltà perché l’altro non la condivide, alla nostra tolleranza perché l’altro
non la garantisce.

Mescoliamo l’immigrante musulmano col regime da cui fugge, allo stesso modo
in cui l’Islam integralista confonde tutto: governi, giornali, arte,
vignettisti. È urgentissimo battersi perché i cristiani nel mondo non siano
perseguitati, ma senza rinunciare per ritorsione ai nostri principi.

Bisogna ricominciare a fare politica, per la semplice ragione che la lotta
contro il terrorismo sta naufragando nella non-politica. Proseguirla allo stesso
modo – apocalitticamente, ideologicamente – vuol dire perderla, farsi sommergere
dal dilagare d’inservibili commenti, e rivivere gli Ultimi Giorni
dell’Umanità.