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11 Ottobre 2004

In viaggio con Prodi

Autore: Gigi Riva
Fonte: l'Espresso

L’Oriente e l’Occidente. La pace e la guerra. La globalizzazione. Gli immigrati. Le élite culturali. L’università allo sfascio. Partendo dai portici di Bologna e da don Gherardi, un Professore inedito. Non mi appassiona la diatriba se l’Occidente debba comprendere o meno l’Islam. Perché se c’è un Occidente, c’è sempre comunque un Oriente. E se si entra in queste categorie, dovremmo sentire forse come ostile l’Asia No, cerchiamo di cambiare prospettiva e di considerare il mondo come uno… Con Romano Prodi si è approdati al ‘mondo uno’ partendo da un portico di Bologna e da un’occasione. Il presidente, ancora per poco, della Commissione europea, domenica 17 ottobre, presenterà la figura di monsignor Luciano Gherardi, per anni parroco della chiesa di San Bartolomeo e Gaetano, punto di incontro culturale degli ultimi decenni, nell’ambito dell’iniziativa del Fai (Fondo per l’ambiente italiano) ‘Dietro le quinte della tua città’. Il passaggio dal particolare al generale può sembrare ardito, è invece coerente. Monsignor Gherardi fu un ‘glocal’ (insieme di globale e locale) ante litteram. Nelle chiacchiere sotto il portico davanti alla chiesa, dopo la messa domenicale delle 11, si partiva magari dall’analisi di una festa popolare. Per poi spaziare lontano. Interlocutori, oltre a Prodi, Beniamino Andreatta, i professori Angelo Tantazzi e Carlo D’Adda. E molti altri intellettuali gravitanti intorno all’università. Discussioni di carattere civile e sociale, “ma non politiche, ci si fermava al prepolitico”.


Assai attuale, presidente Prodi, se oggi la politica comprende molto di quello che un tempo si definiva prepolitico.
“Come in tutte le epoche di cambiamenti enormi – e questa lo è – la politica si alimenta col prepolitico, con l’interpretazione culturale di ciò che avviene. Nei momenti di passaggio siamo obbligati a uscire dal quotidiano per cercare di capire dove si andrà a finire”.


Pare una chiara allusione ai movimenti, utili se i partiti faticano a definire un’identità e da lì traggono nuova linfa.

“Non solo. Ci sono anche i grandi temi della pace e della guerra, dello sviluppo. Quando si è in una curva si vede il panorama in un modo completamente diverso, si è obbligati a guardarsi attorno. Ecco perché adesso il problema di cosa sta attorno alla politica è diventato molto più profondo di prima. Ci si interroga su quale deve essere il ruolo della politica circa la fecondazione, gli Ogm e mille altri nuovi argomenti. Pensiamo alla stessa definizione di guerra giusta. Erano decenni che non c’era un dibattito popolare sulla guerra giusta quando nella storia c’è sempre stato e ha impegnato fior di studiosi”.


Fausto Bertinotti ha proposto un approccio dicendo: qui e ora non c’è guerra giusta.

“Quello che voglio sostenere è che quando accadono avvenimenti come l’Iraq si torna indietro e si riprendono tematiche generali. Il prepolitico è un territorio vasto. Nelle decisioni che ho preso in questi cinque anni per l’Europa mi sono sempre dovuto confrontare con argomenti che 15 anni fa non erano in agenda. Questo è il frutto di ciò che, con una parola brutta, chiamiamo globalizzazione. Il tentativo di regolare il clima, le sementi che modificano il contesto in cui viviamo, il problema dell’Aids e dall’altro lato (in un settore meno angosciante ma ugualmente problematico) la mucca pazza: tutti dibattiti culturalmente nuovi. Mettendoli in fila, obbligano a riflettere sui destini finali in modo diversissimo da prima”.


Anche prima era comunque chiaro che il batitto d’ali di una farfalla a Tokyo poteva far crollare la Borsa di New York.

“Ma prima l’ambito globale era ristretto a economia e politica. La globalizzazione della politica arriva con la bomba atomica e l’equilibiro del terrore. Quella dell’economia con la crisi del 1929. Ora la globalizzazione riguarda campi della vita che devono essere affrontati con argomenti politici ma non appartengono alla politica tradizionale. La politica assorbe il prepolitico e finisce per avere la necessità di allargarsi come prima non aveva mai fatto”.


In questo senso l’esperienza con monsignor Gherardi è stata centrale nella sua formazione

“In realtà a quell’epoca io ero già formato. Eravamo tutti professori universitari che arrivavamo da fuori Bologna e monsignor Gherardi non era un leader politico, ma un intellettuale interessato al campo artistico. E un osservatore. Lui stesso diede la definizione della città a tre navate, una continuazione della chiesa coi portici di lato e la strada in mezzo”.


Lei vede altri portici, oggi, dove si creano circuiti di pensiero

“Di portici a Bologna ce ne sono 42 chilometri e chissà quanti ce ne sono di gruppi analoghi. Non bisogna commettere l’errore di considerare le proprie esperienze come uniche. La particolarità, nel nostro caso, è che si sono trovate insieme persone che poi hanno avuto incarichi di responsabilità elevati. Nei portici a conversare è il modo in cui si passa il meglio del tempo libero nelle città italiane, escluse forse le due metropoli, Roma e Milano. La differenza che ho trovato tra il Sud e il Nord Europa, andando a Bruxelles, sta proprio nella passeggiata che da noi si fa e lassù no. Per il resto ci si omogeneizza, ma lo stare per strada è la ricchezza del Sud Europa. Succede a Bologna come a Padova”.


Ha indicato due città di lunga tradizione universitaria. Non è un caso.

“No, non è un caso. Molto deriva dal crearsi di comunità attorno a istituzioni come l’università. C’era l’università, e poi il Cattaneo, il Mulino. Si passeggiava e gli incontri casuali favorivano dialoghi destrutturati. Forse oggi l’università è diventata anch’essa troppo grande, ci sono molti laboratori decentrati. Nonostante questo la sua presenza ha preservato la città da tante possibili distorsioni”.


Rappresenta una sorta di antidoto allo scontro di civiltà In fondo nella radice del suo nome c’è il concetto di universalità.

“L’università, tutta, soffre di una grande contraddizione. Perché in teoria è universale e intellettualmente aperta. Ma nella sua organizzazione è provinciale in modo spaventoso, è ‘italiana-italiana-italiana’. Se non poniamo rimedio a questo deficit per noi sarà una tragedia. Si fa fatica a trovare un professore straniero. Quanto agli studenti si è un po’ ricominciato con l’Erasmus, ma in modo frammentario e ce ne sono comunque pochi”.


Quando c’è stata la frattura

“È antica. Ma almeno prima c’erano delle colonie di greci, libici, turchi che arrivavano perché da loro c’era il numero chiuso o per altre necessità burocratiche. Analoga sorte abbiamo nell’economia. Se non riprenderemo ad avere investimenti stranieri, che non ci sono più, la vedo brutta. E mi riferisco a quelli che portano laboratori, tecnologia nuova, non quelli che comprano un palazzo o una fabbrica perché hanno bisogno di una quota di mercato o di un marchio. L’Europa è un po’ isolata, ma l’Italia è in condizioni disperate. Nell’università è lo stesso e dunque quando mi parlano di universalità penso: bella parola ma ha perso il suo significato. Anzi vedo prevalere la corporazione che è l’opposto”.


Se avessimo professori e studenti turchi forse guarderemmo a quel popolo in un altro modo, non avremmo certe preclusioni.

“E qui tocchiamo un altro punto, cioè come l’Italia vede, tocca, la sua immigrazione. Se arriva solo gente che fa lavori umili noi identifichiamo l’immigrazione come miseria, all’opposto di quanto avveniva nel Medioevo dove la mobilità riguardava professori e studenti. La differenza col mondo aglosassone è spaventosa. In America è tradizione, ma ormai in Inghilterra e in Germania la percentuale di studenti stranieri cresce. Mi devono spiegare perché da noi ci sono 500 studenti cinesi e in Gran Bretagna ce ne sono 60 mila; quasi altrettanti in Germania e Francia”.


Cinque anni a Bruxelles hanno cambiato la sua prospettiva.

“Io ho sempre fatto il vagabondo. Però Bruxelles ha cambiato di molto la mia prospettiva. Da là ho potuto constatare che la fermentazione delle élite culturali in Australia, Nuova Zelanda, in alcune metropoli indiane è assolutamente superiore alla nostra. Qualsiasi Paese europeo, la Spagna stessa, hanno un’apertura assai maggiore di noi. Alcune grandi università dovrebbero essere delegate a svolgere la funzione di richiamo internazionale. Di queste cose discuterei con monsignor Gherardi, se ci fosse ancora”.


Per arrivare a quale soluzione

“Non è che le soluzioni si trovino nelle oasi dove si esercita il pensiero. Per le soluzioni ci vuole la politica. E non è sufficiente far parte dell’Europa per avere un comportamento internazionale”.


Quanto ci vuole per invertire la tendenza

“Poco o moltissimo. I professori stranieri vengono se trovano condizioni salariali, di carriera, mobilità, progresso tecnologico e scientifico per cui sono attratti. Il Canada in una generazione ha fatto passi da gigante. Se non cominciamo mai ci possiamo mettere anche 750 anni”.


In San Petronio, nella sua Bologna, c’è anche il famoso affresco di Maometto all’inferno che tante polemiche ha suscitato. Fino a diventare oggetto di scontro.

“Ogni dieci anni quell’affresco provoca qualche pasticcio. Non rispecchia il giudizio di oggi ma di un’epoca storica ben datata. Era l’interpretazione comune del tempo e allora cosa facciamo Gli mettiamo le mutande come alla cappella Sistina No, lo lasciamo lì e ogni tanto qualche visitatore si sdegna. Ma la storia ha i suoi diritti. Chi ha uso di ragione non può che collocarlo in un tempo in cui si facevano le crociate. Punto. Non c’è nessun segno di intolleranza verso l’Islam”.


Secondo alcuni intellettuali il mondo islamico fa parte dell’Occidente.

“Questo concetto di Occidente, questa discussione su dove si fermi non mi ha mai appassionato. È un gioco che da Hungtington in poi si fa continuamente, ogni mese c’è qualcuno che vuol dare la sua interpretazione. Se si definisce l’Occidente c’è sempre un Oriente con cui mettersi in guerra. Il mondo si stringe parecchio, ci urtiamo quotidianamente e più si è stretti più si deve andare d’accordo. Io so solo che il mondo integrato ci obbliga al dialogo e non al conflitto, non solo con l’Islam”.


Dunque bisogna sforzarsi di concepire il mondo come uno.

“Esattamente. Al di là degli eventi temporali contingenti, il vero fatto nuovo è che metà dell’umanità si è svegliata. Un evento che speravamo e sognavamo noi che abbiamo vissuto in un periodo in cui il problema del Terzo mondo era sentito. Adesso che quel momento è giunto, arriva la grande paura economica. E non abbiamo ancora pensato che invece questo fenomeno, in un periodo non lunghissimo, trasformerà gli equilibri politici. Dobbiamo prepararci a una struttura superiore di colloquio e confronto, altrimenti le categorie di guerra e di scontro che mi rifiuto di usare, ma che vengono riferite all’Islam, dovremmo poi usarle col mondo asiatico, con la Cina. Abbiamo bisogno di una interpetazione della loro evoluzione. In questo la saggezza e il ruolo dell’Europa sono molto importanti. Perché abbiamo un allenamento formidabile al dialogo e all’adattamento di strutture politiche diverse”.


È il rovesciamento del neocon Robert Kagan. Ha definito sarcasticamente l’Europa come kantiana e venusiana in opposizione all’America hobbesiana e marziana. Lei l’ha preso come un complimento.


“In un certo senso sì. L’Europa, nata da un’unione di minoranze, sta adagio adagio rivoluzionando il concetto di Stato moderno. Solo l’Europa sta proponendo un progressivo multilateralismo che è il solo capace di interpretare la globalizzazione”.


E gli Stati-Nazione resistono a questa rottura non vogliono concedere quote della loro sovranità.

“Certamente. Non a caso ho usato questo paragone nella lettera su ‘Repubblica’ in cui ribadivo la necessità di una Federazione tra i partiti dell’Ulivo. Dove ciascuno deve cedere una quota di sovranità”.


Ecco che torna l’esperienza di Bruxelles.

“L’Europa ci ha insegnato un nuovo metodo. Si pensi solo all’esercizio intellettuale, politico ed etico che ho dovuto fare in questi mesi per approfondire il dossier sull’ingresso della Turchia. Qual è il livello di diversità che si può avere, essendo parte di un’unica unione Questa è la tolleranza istituzionale e politica che diventa decisione politica”.


Nel dossier avrete pur valutato che il reato di adulterio, materia del contendere, da noi è stato abolito solo negli anni ’60.


“Perché andare agli anni ’60 Ci sono 23 Stati americani dove è ancora penalmente punito”.