Chi ha letto l’articolo di Gheddafi, il 21 gennaio
sul New York Times, avrà ragionevolmente visto in esso una
provocazione, e un’insultante confutazione dello Stato ebraico.
Purtroppo le cose non stanno così, anche se l’insulto resta: quel che
ha detto il Presidente libico – non ha più senso parlare di due Stati,
israeliano e palestinese, in pace l’uno accanto all’altro – è una
convinzione più diffusa di quel che si creda. La sostengono non solo
fazioni palestinesi importanti, ma un certo numero di ebrei dentro e
fuori Israele. Gheddafi dice a voce alta quel che molti pensano, anche
senza desiderarlo. C’è da chiedersi se la destra israeliana che ha
vinto alle urne (quella di Netanyahu e di Avigdor Lieberman, capo di
Israel Beitenu, ovvero «Israele casa nostra») non abbia pensieri
analoghi: che non confessa ma che impregnano i suoi piani d’azione.
La
formula «due Stati-due popoli», che continua a esser sbandierata in
Israele, a Washington, in Europa, non ha più radici vere nella realtà.
È diventata una vana parola, che dà buona coscienza ma non suscita
azioni. È come un treno che tutti immaginano in attesa alla stazione, e
invece è già passato. Se in Israele si è affermata una destra ostile a
negoziati con l’insieme dei partiti palestinesi, che non intende cedere
territori e anzi accresce le colonie, significa che l’occupazione non è
considerata quello che è: la più grande, l’autentica minaccia
strategica per l’esistenza di Israele. In queste condizioni parlare di
due Stati è ipocrisia.
Il piano implica la fine dell’occupazione e rari sono i politici israeliani che l’ammettono e ne traggono conseguenze.
È
il motivo per cui alcuni auspicano che sia Netanyahu a guidare Israele.
Lo ha scritto Gideon Levy su Haaretz, già prima del voto: la sua
speranza è che finalmente si cominci a dire il vero, e Netanyahu può
farlo. Che s’abbandonino espressioni eufemistiche come processo di pace
o due Stati-due popoli. Con Netanyahu le cose diverrebbero più chiare,
il dislivello tra verbo e azione meno nebbioso. Il capo del Likud è
d’accordo con Lieberman: non vuole ridurre le colonie, e anzi difende
il loro «aumento naturale». Non parla di Stato palestinese ma di Pace
Economica (basta riempire le pance dei palestinesi per moderarli).
L’idea non è nuova: la sostenne il ministro della Difesa Moshe Dayan
dopo la guerra del ’67, e negli Anni 70 la riprese il laburista Peres.
La prima intifada nell’87 la stritolò, rivelando a chi non voleva
vedere che i sogni palestinesi non erano economici. Il fatto che sia
oggi riproposta è qualcosa su cui vale la pena meditare, perché rivela
un malessere israeliano tuttora irrisolto e pernicioso.
Il
malessere è certo acuito da chiusure aggressive di arabi e palestinesi,
come scrive lo scrittore Yehoshua (La Stampa, 14-2). Ma in buona parte
è interno, è frutto dell’incapacità israeliana di rispondere alla
domanda: cosa vogliamo essere? che Stato abbiamo in mente, di fatto?
Uno Stato ebraico, democratico, e che al contempo mantenga il controllo
su zone dove i palestinesi sono in maggioranza? Qui nascono i mali,
spiegati bene dallo storico Gershom Gorenberg (The Accidental Empire,
New York 2006): le tre aspirazioni sono in realtà incompatibili fra
loro. Non è possibile che lo Stato resti al tempo stesso ebraico e
democratico, se l’occupazione permane: gli ebrei sono minoritari nei
territori, e lo saranno (forse già lo sono) nell’insieme geografico che
amministrano. Estesa alla Cisgiordania, la democrazia israeliana non è
più ebraica. Oppure rimane ebraica, ma smette d’esser democrazia. Di
questo converrà cominciare a discutere: in Israele, in America, in
Europa e nella diaspora, non contentandosi d’additare spauracchi come
Gheddafi. Gorenberg invita la diaspora a condannare l’occupazione.
L’indeterminatezza sulla forma-Stato è tipica degli imperi instabili e
minaccia gli ebrei dentro Israele e fuori.
Il piano due
Stati-due popoli è il solo orizzonte augurabile. Ma quel che è accaduto
in 41 anni ha forgiato una realtà che lo rende impraticabile: tale
d’altronde era lo scopo, esplicito, di chi favorì l’Impero Accidentale
(da Sharon a Peres). Basta guardare la carta geografica per
constatarlo: la Cisgiordania è coperta da una miriade di colonie,
sparse come polvere, inconciliabili con ogni continuità territoriale
palestinese. E non esistono solo colonie, abitate da uomini armati che
infrangono il monopolio della violenza legale. Ovunque, nella Westbank,
ci sono strade riservate solo a israeliani o percorribili dai
palestinesi a condizioni capestro.
Le ultime cifre sul numero
dei coloni, fornite da un rapporto per il ministero della Difesa, sono
le seguenti: in Cisgiordania 290.000 in 120 insediamenti, più decine di
avamposti militari. Sulle alture del Golan 16.000 in 32 insediamenti.
Nelle aree annesse di Gerusalemme Est 180.000. Gaza fu evacuata da
Sharon nel 2005 (9000 israeliani in 21 insediamenti) ma senza che la
colonizzazione in Cisgiordania diminuisse. Anzi, aumentò: le
organizzazioni non governative testimoniano come ogni mossa israeliana,
diplomatica o bellica, s’accompagni a un aumento di colonie e
avamposti. Questi ultimi sono chiamati illegali, ma ogni insediamento
lo è. Ogni insediamento nasce dal groviglio mentale seguito alla guerra
del ’67: groviglio che ha frantumato il concetto di confini e di Stato.
Gideon Levy su Haaretz ricorda come il duello Begin-Peres nell’81 fosse
una gara fra chi garantiva più colonie. I coloni pesano enormemente sui
governi israeliani. Il laburista Barak aumentava le colonie, mentre
sotto la guida di Clinton negoziava con Arafat. Lo stesso Barak, poco
prima del voto del 10 febbraio,
ha promesso al Consiglio dei coloni (Consiglio Yesha) di non
smantellare l’avamposto Migron, nonostante le intese del 2001 con
Washington. I coloni di Migron comunque potranno spostarsi
nell’insediamento Adam presso Gerusalemme: altra colonia che doveva
esser smantellata.
L’occupazione dunque continua, anche se i
governi israeliani evitano la parola annessione. Evitandola tengono
tuttavia in piedi il groviglio mentale, a proposito di nazione e
confini. Se parlassero di annessione, dovrebbero infatti riconoscere
che la natura dello Stato muta sostanzialmente, e che Israele è a un
bivio. Se vuol preservare l’ebraicità diventa Stato di apartheid. Se
vuol restare democratico, dovrà ammettere che i palestinesi son
titolari di diritti coerenti con i numeri.
Secondo Gorenberg, è
la colonizzazione successiva alla guerra dei Sei Giorni che ha
distrutto l’idea di Stato nata nel ’48: «Il processo di consolidamento,
necessario a un nuovo Stato, fu sconvolto. Una generazione che aveva
costruito lo Stato cominciò senza volerlo a togliere pietre essenziali
alla sua struttura»: le colonie ravvivarono l’anarchia pionieristica
della conquista, lo spirito messianico dell’organizzazione Gush Emunim
contaminò i laici e in particolare gli immigranti della diaspora russa
stile Lieberman, infastiditi dai vincoli della vita locale. Lo stesso
spirito spinge la destra a sospettare gli arabi d’Israele (20 per cento
della popolazione): arabi cui Lieberman vuole imporre doveri di lealtà
anche bellica allo Stato ebraico, in cambio del diritto di cittadinanza.
Chi
rispetta i fatti, dovrà dire quel che vuole. Se vuole la sopravvivenza
della nazione nata nel ’48, non potrà non definire la propria idea di
Stato e agire di conseguenza. Non potrà non vedere che verrà il giorno
(sta già venendo) in cui i palestinesi chiederanno che la situazione
resti quella che è (una Grande Israele) ma che diventi democratica:
facendo corrispondere a ogni uomo un voto, come nella legge della
democrazia. Quel giorno gli ebrei saranno una minoranza: lo Stato non
sarà più ebraico. Nascondere a se stessi questa realtà non serve a
evitarla. Serve a renderla più vicina e minacciosa.