Gli elettori olandesi hanno inferto il colpo di grazia a un Trattato costituzionale europeo che era già agonizzante dopo il «no» della Francia. Per quanto i governi dell’Unione possano trincerarsi dietro la foglia di fico del proseguimento delle ratifiche, al tramonto della Carta e delle speranze a essa collegate manca una tessera soltanto: l’annuncio che in Gran Bretagna, visti gli umori espressi da due soci fondatori dell’Ue, non si voterà o comunque non si voterà nei tempi previsti. Con tanti ringraziamenti da parte di Tony Blair, che salvo miracoli non avrebbe potuto evitare la sconfitta. Gli europeisti, che a dispetto delle apparenze continuano a essere ampia maggioranza rispetto agli euroscettici, hanno ora almeno due elementi sui quali riflettere.
Il primo, che non comporta grandi tormenti, è scritto sul calendario. Il secondo, che tocca invece gli ideali e le emozioni del progetto integrazionista, riguarda il modello di rilancio di una Europa che non vuole morire sotto le rovine del suo tempio costituzionale. Il calendario ci comunica alcune cose sgradevoli. Ci dice per esempio che tra appena quindici giorni una Unione malridotta dovrebbe trovare la volontà politica di accordarsi sul nuovo bilancio comunitario, premessa indispensabile perché l’Europa agisca e distribuisca aiuti nei prossimi sei anni. Divisi fino a ieri, è possibile ma non è probabile che i Venticinque
si scoprano uniti a seguito delle batoste francese e olandese. E il pericolo di una paralisi suicida, allora sì, rischia di prendere consistenza.
Ci dice ancora il calendario che in Germania si voterà nel prossimo autunno,
in Italia a primavera del 2006 e in Francia nel 2007. Se Chirac avesse imitato De Gaulle e si fosse dimesso, l’attesa di una ripartenza non sarebbe risultata eccessiva, ma così come stanno le cose è difficile immaginare un sussulto di iniziativa europeista prima di un paio d’anni. Perché l’ex asse franco-tedesco resta insostituibile per rilanciare l’Unione e anche perché, almeno a Parigi, soltanto un nuovo capo dell’Eliseo può avere la credibilità necessaria per guardare avanti.
Due anni, dunque. E l’errore più grave, quello che davvero renderebbe
irreversibili le sconfitte referendarie di questi giorni, sarebbe di trascorrerli infilando la testa nella sabbia. Eludendo la realtà, oppure affidandosi a un europeismo declamatorio come troppo spesso accade in Italia.
Dato per acquisito che nell’attesa l’Unione non affonderà (se riuscirà a darsi un bilancio), rimane da capire come mai un certo numero di popoli europei – contarli è impossibile a cause delle diverse procedure di ratifica – ce l’abbiano con l’Europa. Le risposte di fondo esistono: paura del liberismo economico, paura dello smantellamento dello Stato sociale, paura dell’allargamento, paura della perdita di sovranità, paura dello scambio iniquo di competenze con una Europa che non sa rispondere alle crisi congiunturali e non offre nemmeno la consolazione di una forte identità internazionale.
Se questi sono i sintomi che oggi angustiano l’Unione, il rimedio non può essere cercato in un ritorno alla «via elitaria» che ha finora guidato la costruzione europea. Ben al contrario, occorre riflettere e discutere, da oggi, su alcune grandi questioni che terranno banco nel futuro europeo. Come gestire il capitalismo globalizzato senza tradire una radicata cultura europea nella quale non trova posto il liberismo senza freni? La Costituzione in verità non apriva le porte al liberismo, ma tant’è, il segnale è lanciato. E la ricerca di una terza via riformista può essere l’unica risposta valida. Quel che accade e accadrà in Germania, dove le riforme vengono tentate, conta per l’Europa di sicuro più del «no» franco-olandese.
Può diventare democratica una costruzione elitaria e tecnocratica quale è
l’Europa? La scelta non esiste, la risposta sarà sì o non ci sarà più Europa.
Può l’Unione raccogliere l’inquietudine dei suoi cittadini, cercare i rimedi
sollecitati e insieme allargarsi fino a diventare ingestibile? Sarà forse questa più di altre la chiave decisiva per il futuro modello europeo. Una concezione di Europa come mercato non richiede mutamenti di rotta. Ma per chi ancora crede all’ambizione di una Europa politica la via diventerà obbligatoriamente quella dell’Unione a più velocità. Con due gironi interdipendenti, l’uno destinato a far da portabandiera dell’integrazione restringendosi e l’altro impegnato a stabilizzare e a democratizzare allargandosi (alla Turchia, all’Ucraina, ai Balcani).
I rischi sono alti, gli strumenti legali restano da inventare. Ma l’alternativa al cambiamento è continuare a deludere i popoli e vivere il declino definitivo dell’Europa senza nemmeno riconoscerlo.