12 Dicembre 2006
Il traditore impunito
Autore: Guido Rampoldi
Fonte: la Repubblica
«Il Cile sia maledetto se Pinochet morirà nel suo letto», era scritto sui muri di Valparaiso otto anni fa, nei giorni in cui l´ex dittatore entrava in Parlamento con titoli trionfali – senatore a vita, Comandante benemerito delle Forze armate.
Pinochet è morto nel suo letto, non riverso sul materasso d´una cella né abbattuto da una pallottola vendicatrice: ma il Cile non ha motivo per sentirsi maledetto. L´uomo che fece scannare tremila prigionieri politici, quando ormai era del tutto evidente che la sinistra cilena non era in grado di opporre una qualsiasi reazione al golpe, se n´è andato impunito ma circondato dal ribrezzo generale.
A parte alcuni fan latini, come le stridule signore che anni fa ne scandivano il nome in un raduno del Polo, da tempo non aveva più estimatori neppure in quelle destre occidentali che ancora negli anni Novanta vedevano in lui un combattente della Guerra fredda certo spietato, ma in definitiva schierato dalla parte giusta.
Margaret Thatcher gli offriva un tè ogni qualvolta passava per Londra. E la buona performance dell´economia cilena nei 17 anni della dittatura convinceva perfino conservatori lucidi a condonargli la strage del 1973-74, e i trentamila seviziati e rapinati dei beni, e le centinaia di famiglie di desaparecidos che Pinochet continuava a torturare rifiutando di indicare dove fossero i resti degli uccisi.
Per tutto questo, se fosse morto in una prigione oggi non pochi lo ricorderebbero come un eroe sfortunato e solitario, meritevole quantomeno di compassione. Invece la timorosa democrazia cilena non ha osato mandarlo in galera, per paura d´una reazione delle Forze armate, però gli ha inflitto per sei anni l´onta d´una costante investigazione che ha smantellato quello a cui egli più teneva: l´immagine del nonno della nazione, un caro vecchio, un simpatico gentiluomo.
In quei panni s´era introdotto per lustri nelle case dei cileni, attraverso la sua tv e la sua stampa. Tato, nonno, lo chiamavano i suoi non pochi sostenitori. Ma quando ormai si sentiva al sicuro, prima fu arrestato a Londra per crimini contro l´umanità, e poi, tornato in Cile, dovette subire accuse da delinquente comune.
Magistrati e giornali insinuarono che il Nonno non soltanto fosse un assassino, qualcosa che non impressionava una buona metà dei suoi compatrioti, ma anche un ladro, un trafficante, una tangentista nel libro-paga dell´industria bellica britannica; e i figli peggio ancora, stando a storie d´aerei che arrivavano carichi d´armi e ripartivano pieni di droga. Allora anche il perbenismo cileno cominciò a vacillare, e la destra a sperare che il Tato nazionale la liberasse della sua presenza elettoralmente dannosa tirando in fretta le cuoia.
Avrà un funerale affollato, ma neanche il pienone di generali in pensione e la piccola folla adorante potrà far dimenticare che da tempo il Cile, quasi tutto il Cile, si vergognava di lui. Nella sua biografia non c´è un solo tratto che attenui l´impressione d´una mediocrità tronfia e furba. In questo somiglia ad un altro sterminatore di successo, Franco, per il quale non a caso Pinochet nutriva una stima sconfinata.
Entrambi generali, entrambi dichiaratamente cattolici, entrambi diffidenti verso l´ideologia (ragione per la quale tecnicamente non è corretto classificarli nella casella dei fascismi). Entrambi, infine, per natura traditori. Ma il cileno con una sistematicità assoluta. Tradì innanzitutto Allende, che l´aveva nominato capo di Stato maggiore. E avrebbe tradito anche gli altri congiurati se il golpe fosse stato abortito. Fu l´ultimo generale a entrare nella cospirazione, e dopo non poche esitazioni.
La mattina della sollevazione – mi raccontò Victor Pei, un formidabile anarchico spagnolo che nel 1973 era il segretario di Allende – si unì agli altri generali con due ore di ritardo: voleva essere sicuro che il colpo di Stato fosse riuscito. In quelle ore tentò, attraverso un suo emissario, di convincere Allende a salire con la famiglia su un aereo che li avrebbe condotti in salvo; e allo stesso tempo annunciò ai complici che l´aereo sarebbe esploso in volo, con Allende, i figli e i nipotini. Nei mesi successivi tradì, emarginandoli, i generali con i quali aveva formato la giunta militare. E continuò a tradire con successo anche dopo la fine della dittatura, quando tentò di addossare l´intera responsabilità del massacro sul capo della sua polizia segreta, Contreras.
Pinochet non sapeva, ripetevano la moglie e i figli ogni volta che un giornalista straniero li interpellava sulla strage seguita al golpe. Alla fine degli anni Novanta pareva ormai riuscito a rimodellare il passato. Imposto un oblio coatto sulla strage, di cui in Cile non si poteva neppure parlare, s´era messo in testa di entrare nella storia dalla porta principale. I suoi più efficaci testimonial furono i Chicago boys, gli economisti americani che avevano avviato il Cile a diventare l´allievo prediletto del Fondo monetario. Il più rappresentativo, Milton Friedman, era sbarcato a Santiago col nome d´un cattedratico cileno sparito nel nulla e il proposito di conoscerne la sorte. Chiese ai militari che ne fosse stato, ricevette risposte evasive, preferì non insistere, dimenticò.
Da allora la collaborazione tra i Chicago boys e Pinochet è tra le più vistose conferme che solo per un pernicioso equivoco i termini “liberista” e “liberale” sono unificati nella lingua spagnola sotto l´ambigua dizione “neo-liberal”. Convinto d´essere una figura eminente del Novecento, Pinochet cominciò a misurarsi con le grandi personalità del secolo. Scrisse memorie in cui si paragona implicitamente ad un condottiero dell´Antica Roma. Quando passava per Londra non tralasciava di visitare il Museo delle Cere, dove, raccontò egli stesso, s´era fermato davanti alla statua di Lenin per sbeffeggiare il russo: «Voi siete caduto, siete caduto», gli aveva ripetuto, volendo intendere “voi siete nelle polvere, io su un piedistallo”. Ma sarebbe caduto anche Pinochet.
Quando il governo Blair lo arrestò a Londra per crimini contro l´umanità, la storia del Cile cambiò in modo definitivo. Sono stato testimone dell´evento che separò il vecchio Cile dal nuovo, la votazione nella Camera dei Lord che confermò l´arresto dell´ex dittatore. Quel pomeriggio mi trovavo nell´elegante palazzina della Fondazione Pinochet, dove tutto il pinochetismo s´era radunato per assistere alla diretta della votazione londinese trasmessa da un maxischermo. Quando fu chiaro che il Nonno aveva perso la partita, la distinta folla trasmutò in masnada. Scoppiò una bolgia di ululati, muggiti, singhiozzi, abbracci bagnati. Poi un urlo roco, «Figli di puttana!», e tutto quel consesso di signore leopardate e distinti generali, di giovani incravattati e madonnine lacrimanti, subì una trasformazione repentina, perse la testa, agitò i pugni, invocò la guerra, i plotoni d´esecuzione, il golpe, i carri armati: tirò fuori l´anima vera.
Cori sempre più striduli maledissero gli inglesi, gli spagnoli, gli europei, il mondo intero: tutti «comunisti, froci, figli di puttana». Si gridava: «Dovevamo ammazzarli tutti, i comunisti, ecco dove abbiamo sbagliato!». «All´ambasciata inglese!», «A lottare nelle strade», «Guerra, guerra, qui comincia la guerra!», «Fuori le baionette!». La grande mandria imbizzarrita mosse muggendo verso la strada, gli spazi aperti, più propizi a sfogare gli istinti naturali. Biondone ossigenate frustavano i cameramen con le bandierine cilene che poco prima, in uno sventolio euforico, anticipavano l´evento dato frettolosamente per scontato, l´immediata liberazione dell´Invincibile, Augusto Pinochet. La prole menava pugni sulle schiene straniere. Ma fuggiti i cameramen e arretrati i giornalisti, la carica perse slancio. E ora, che fare? Ci si attruppò in attesa di un capo. Cosa distruggere, dove attaccare, chi punire? Disorientamento. Gli ottimisti assicuravano: «L´Esercito scenderà nelle strade e tutti si cagheranno sotto».
Invece l´esercito non scese nelle strade, né quel giorno né in seguito. Dopo alcune settimane Pinochet tornò a Santiago, libero e impunito: ma il suo Cile era ormai agli sgoccioli. Di fatto era finito quel pomeriggio nella Fondazione Pinochet, con lo spettacolo indimenticabile del pinochetismo che perdeva la maschera della rispettabilità e del decoro. E che stordimento, tra quei militari che ancora mezz´ora prima si sentivano i padroni del Cile, tra quelle signore che cantavano felici: «Con le ossa di Allende faremo un grande ponte, e lo attraverserà Pinochet». L´esercito «mai vinto», come vanta il suo motto, aveva subito una disfatta mondiale.
Il Comandante Benemerito, il Nonno della nazione, il «Libertador immortale» celebrato dai cartelloni e ritratto in questa sala come un cavaliere medievale con un unicorno sullo sfondo, era un accusato di genocidio. La farsa era finita. E con quella finiva una transizione che era stata una transazione, un negoziato di basso profilo con le regole imposte dalla casta militare. Laggiù, in centro, un´allegria da giorno della liberazione. Giureremmo che in queste ore almeno una parte del Cile stia vivendo un´eco di quella insperata allegria.