C’è una grande smania di aprire tavoli: sulle pensioni, sul welfare e sul lavoro, sulla burocrazia, sulla produttività e sulla crescita, e via dicendo. Il “tavolo” – invenzione lessicale recente del gergo politico-corporativo italiano – è inteso come sede di incontro di qualche decina di persone, identificate per la loro appartenenza a una pletora di “parti sociali” variamente intese, con una frotta di ministri: il più delle volte per dibattere (rectius confrontarsi) su questioni di interesse generale (che in via di principio non sarebbero nella disponibilità dei convitati) oppure non passibili di soluzione in quella sede (come quella della produttività, posta, singolarmente, dalle associazioni imprenditoriali).
Rari sono gli episodi di concertazione importanti e riusciti: 1992, 1993, 1995, quando ancora il tavolo era solo un mobile. Oggi l’apertura di tavoli è sovente un espediente per rinviare i problemi; oppure occasione offerta ai convitati per strappare qualche concessione in cambio di un assenso che non dovrebbe essere vincolante. Di tanti tavoli, dunque, si farebbe volentieri a meno. Ma di uno si sente oggi bisogno, che, se funzionante, ne renderebbe molti altri inutili: quello istituzionalmente installato a Palazzo Chigi per consentire ai ministri di elaborare collegialmente e comunicare le strategie di governo, sotto la direzione del Presidente del Consiglio.
In che cosa consista oggi la strategia di politica economica del Governo, ad esempio, non è per nulla chiaro (non bastando certamente a definirla il trinomio “rigore-equità-sviluppo”). Da quando fu pubblicato il Documento di programmazione economico-finanziaria e fu evocato lo spettro del ’92 troppe cose sono cambiate, e per il meglio: crescita più vivace e più solida, un profluvio di maggiori entrate tributarie, in conseguenza una riduzione del disavanzo al di là di ogni aspettativa. Quale è, in questa nuova situazione, la strategia del Governo?
Diamo per scontata la risposta convenzionale, espressa con immagini ancor più convenzionali: la pelle dell’orso da non vendere, la rondine che non fa primavera, la guardia da non abbassare. Certo, ma non è una risposta. Se i miglioramenti saranno confermati, si tratterà di decidere: la scelta, da annunciare, è fra due possibili strategie.
La prima è apparentemente la più virtuosa, ma anche la più rischiosa. Se, grazie alle entrate, l?indebitamento pubblico scende più del previsto, tanto meglio: la virtù consisterà in una desiderabile accelerazione della discesa del debito in rapporto al prodotto. Il rischio tuttavia si manifesta nella difficoltà di proteggere quell?esito dal vorace appetito dei ministri di spesa, ciascuno dei quali già non perde occasione per rivendicare a beneficio del suo ministero una fetta del bottino delle entrate. In questo caso, non improbabile, il risultato sarebbe non già un minore indebitamento, ma una maggiore spesa, di cui certo non si sente il bisogno.
La strategia alternativa (già proposta un mese fa su questo giornale e, con forza, da Fabrizio Galimberti su Sole-24Ore di ieri) poggia su due premesse quantitative e sulla necessità di porre un vincolo all’espansione della spesa. Fra il 2005 e il 2007 la pressione fiscale (imposte è contributi) sarà aumentata di quattro punti di prodotto, e forse più, toccando il livello massimo dal 1997. La ripresa è avvenuta grazie a investimenti e esportazioni: la crescita dei consumi è rimasta assai debole e tale probabilmente rimarrà per la compressione del reddito disponibile delle famiglie. Queste sono due buone ragioni perché il Governo, persistendo nella lotta all?evasione, assuma come obiettivo strategico la riduzione graduale, per almeno due punti, del carico tributario nei prossimi due anni attraverso una riduzione delle aliquote, e dunque delle imposte che gravano su chi già le imposte le paga. Una terza buona ragione è che con un annuncio siffatto il Ministro dell’Economia potrebbe meglio resistere alle pressioni per ottenere aumenti di spesa: il duplice vincolo dell?obiettivo di pressione fiscale e di quello (europeo) di indebitamento determinerebbe per residuo la quota compatibile, e non superabile, della spesa rispetto al prodotto.
Nel 1997 la fiducia dei cittadini italiani nella promessa di restituzione della cosiddetta “tassa per l’Europa” alleviò le conseguenze sull’economia della stretta necessaria per rispettare i requisiti per l’ammissione alla moneta unica. Un annuncio credibile, oggi, di riduzione della pressione fiscale potrebbe, allo stesso modo, consolidare la ripresa. Comunque, è necessario che il tavolo di Palazzo Chigi, da un po’ silente, torni ad essere attivato, per esprimere e comunicare le direttive di politica economica del Governo.