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20 Marzo 2006

Il Silvio Furioso

Autore: Luigi La Spina
Fonte: la Stampa

Alla fine dello show, il dubbio divideva tutti: era la passione, l’urgenza di uno sfogo emotivo o era il calcolo di un blitz studiato a tavolino e attuato con precisione cronometrica nell’orario dei tg? E quali erano i motivi della trasformazione, in pochi giorni, dal «Berlusconi sdegnoso» nello scontro con Lucia Annunziata, al «Berlusconi lagnoso» del duello, sempre in tv, con Prodi e, ora, a quel «Berlusconi furioso» del comizio confindustriale a Vicenza?

E’ difficile, in effetti, abbozzare una specie di fenomenologia berlusconiana, in base agli ultimi suoi exploit comportamentali. Persino il fondatore di quella scuola filosofica, Edmund Husserl, e il suo grande allievo, Martin Heidegger, avrebbero qualche esitazione a inquadrare il nostro presidente del Consiglio nei pur suggestivi schemi della «Logica formale» e neanche in quelli della «Logica trascendentale» o nell’analitica esistenziale di «Essere e tempo». Eppure, un sommario tentativo di esaminare le variazioni di una strategia e i saliscendi dei sentimenti può aiutare sia la comprensione delle ultime mosse berlusconiane sia la previsione di quelle prossime.


La stessa arringa vicentina, poi, disossata nei suoi caratteri peculiari, fornisce un efficace strumento d’interpretazione, se si opera un continuo viavai tra il sentimento e la ragione. «E’ molto duro calare il tanto che si è fatto dentro una rigidità di tempo». La protesta contro i limiti alla sua potenzialità espressiva può sembrare un paradosso: il «grande comunicatore», proprietario del maggior gruppo privato dell’informazione televisiva e influente controllore, da Palazzo Chigi, di una tv pubblica, da sempre, pronta a modellarsi secondo il colore governativo, si lamenta di non poter raccontare agli italiani i successi del suo quinquennio.


In realtà, è il sintomo di un deludente bilancio interiore tra le speranze suscitate e i risultati ottenuti. Una sproporzione che si scarica, all’esterno, su tre fondamentali «traditori»: i partner di coalizione, il blocco sociale di riferimento, i giornali. «Nonostante i nostri alleati». E’ la frase-chiave del suo rancore contro i due maggiori partiti della «Casa delle libertà», quello di Fini e quello di Casini. Ecco perché la campagna elettorale di Berlusconi tende sempre di più ad additare An e Udc come infidi compagni di strada, sempre pronti a mettere ostacoli a una marcia che, altrimenti, sarebbe stata trionfale.


La collera si traduce in strategia: correre una battaglia solitaria che radicalizzi lo scontro elettorale con due obiettivi. In caso di vittoria, riuscire a rendere inoffensivi i leader del cosiddetto subgoverno. Nell’ipotesi di una sconfitta, restare indiscusso capo dell’opposizione. «Un imprenditore che sostiene la sinistra o è andato fuori testa o ha qualcosa da farsi perdonare». L’alleanza sociale su cui Berlusconi ha fondato il suo progetto è racchiusa nella confluenza, rappresentata dalla sua persona, tra la figura dell’industriale e quella del politico.


Ecco perché il nostro capo del governo non riesce non solo a giustificare, ma soprattutto a comprendere come un imprenditore possa definirsi «neutrale» tra i due schieramenti. Se non con due spiegazioni extra-politiche: la pazzia o la paura. La sindrome del «tradimento», per di più, inspiegabile, lo porta a sospettare un grande complotto contro di lui. Di cui, più o meno consapevolmente, i grandi industriali si fanno complici o «utili idioti» di complemento. «Ho i più grandi giornali davanti a me… Domandatevi se non siamo già in una situazione di pericolo per una vera e compiuta democrazia, perché ci sono cose che sono inconfessabili».


La prova del «grande complotto» è rappresentata proprio da tutti i maggiori quotidiani, ipotetico crocevia di interessi bancari, imprenditoriali, intellettuali, giudiziari, all’improvviso coalizzati contro un capo di governo, incredibilmente privo di potere, influenza, controllo. Una constatazione di «solitudine istituzionale» che tradisce la sorpresa, la delusione e l’ira per l’evidente fallimento della naturale propensione ad assorbire, nell’azione di governo, opposizioni sociali e culturali, per la convenienza dei benefici che possono arrivare dal favore ministeriale. Risultato, dopo ben cinque anni, ancor più inaspettato, se si consideri la cospicua «dote» imprenditorial-mediatica su cui Berlusconi poteva contare. «Abbiamo aumentato anche le nascite».


La partita-doppia dell’azione di governo tende sempre a sfuggire l’indagine dell’interlocutore per trasferirsi su un piano di contabilità indecifrabile, ai limiti della surrealtà. Sia nelle trasmissioni tv sia nelle interviste, il diluvio di numeri tracima le umane possibilità di verifica, per contrastare drasticamente l’impressione di un declino. Non ci sono margini per ammettere, almeno, una realtà in chiaroscuro: tutto va meglio di prima e tutto per merito del governo, dall’aumento del valore della case all’andamento della demografia, peraltro aiutata solo dalla immigrazione. «Noi abbiamo trovato, in tutti i settori, un disastro».


Speculare al bilancio dell’attuale governo, è quello del precedente. Così come Berlusconi sotterra il confronto ragionevole sul bene e il male di questi cinque anni sotto un cumulo di numeri esclamativi, peraltro contraddittori sia rispetto alle analisi statistiche più autorevoli sia alle personali sensazioni dei singoli cittadini della nostra Repubblica, crocefigge il passato sulla croce della disperazione più nera. L’effetto taumaturgico della sua attività viene esaltato, con un probabile nocumento, però, all’intera credibilità dello sfoggio di numeri precedentemente illustrato. «Ho avuto un diverbio con una sindacalista della Cgil… mi ha fatto venire il colpo della strega».


La ritualità della convention aziendale, alla quale ormai Berlusconi assimila qualsiasi sua apparizione pubblica, richiede un inizio brillante, che animi l’uditorio e immediatamente lo predisponga ad essere sedotto dal capo. I sorrisi e gli applausi, puntualmente arrivati a Vicenza, non nascondono due costanti della mentalità berlusconiana che, quando si libera delle ipocrisie d’opportunità, possono causargli qualche effetto controproducente: il veteromaschilismo e l’antisindacalismo. Se la seconda, in ambiente industriale, può essere comprensibile, anche se potrebbe essere la spia di una concezione un po’ invecchiata dei rapporti aziendali, la prima può procuragli più danni.


Del tipo di quelli arrecati dall’effetto sgradevole, per le donne del suo stesso partito, della risposta televisiva sulle «quote rosa». «Quando le sinistre saranno al potere sappiate che le imprese, per loro, sono macchine che consentono lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e che, per loro, il profitto è “lo sterco del diavolo”». Abbiamo tenuto per ultima questa citazione perché riassume perfettamente sia l’attuale strategia comunicativa di Berlusconi sia il fondo dei suoi sentimenti e della sua cultura.


Il presidente del Consiglio, rispetto alla campagna elettorale di cinque anni fa, ha cambiato nettamente prospettiva e metodo. Nel 2001, aveva puntato tutto sulle promesse del suo governo e sugli interessi dei suoi elettori. Ora, cerca di suscitare paura per i progetti dell’avversario e tende a parlare non tanto alla ragione (e al portafoglio) dei suoi concittadini, quanto alle loro antiche diffidenze. Facendo perno sui ricordi, scolastici o propagandistici, delle campagne anticomuniste alla metà del Novecento. Insomma, tanto Berlusconi, cinque anni fa, chiedeva agli italiani di guardare a un radioso futuro, quanto ora li ammonisce a ripensare a un angoscioso passato.


La strategia con la quale il presidente del Consiglio si appresta ad affrontare gli ultimi venti giorni prima del voto fa prevedere, perciò, un continuo rifiuto delle regole del gioco, con il tentativo di procedere per blitz e colpi di scena. Una tattica «a spariglio» che, peraltro, corrisponde alla sua più genuina identità. Si potrà compiere, in questo modo, l’intera parabola della sua avventura pubblica, che è nata dal «Berlusconi, imprenditore rivoluzionario» e che si è ricongiunta al «Berlusconi, politico rivoluzionario». La continuità di una strada della quale non si sa se, il 10 aprile, si dovrà scorgere una nuova tappa o il termine del cammino.