Dopo quello che ha detto sull’opportunità d’annientare Israele e sull’Olocausto trasformato in feticcio pagano dagli occidentali, dopo essersi augurato che gli ebrei tornino in Europa e che i palestinesi cessino di pagare il «grande crimine» commesso dal nostro continente, è difficile per Mahmoud Ahmadinejad far marcia indietro, tranquillizzare le democrazie. Il Presidente iraniano ha oltrepassato la linea rossa – hanno detto gli europei che per anni hanno negoziato con gli ayatollah – e la decisione presa a Teheran di togliere i sigilli dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica dagli impianti nucleari, e di ricominciare la ricerca sull’uranio arricchito, è vista come un evento minaccioso, potenzialmente letale. Già il 24 settembre 2005 il governo iraniano fu accusato di violare le disposizioni del Trattato di non proliferazione, e l’Agenzia di Vienna era stata chiara: Teheran non possiede ancora l’atomica, ma nasconde i propri propositi al guardiano Onu del Trattato che è l’Agenzia. Da parte sua Teheran sostiene di voler arricchire l’uranio a soli fini pacifici: cosa consentita dal Trattato.
La violazione vera e propria non è del tutto appurata, la colpa iraniana è per adesso più politica che giuridica, ma il rifiuto di sottoporsi a seri controlli è già ritenuto un’infrazione. Su questo i governi europei e il governo Usa sembrano d’accordo, dopo le divisioni sull’Iraq. Così l’atomica rientra nelle nostre vite, nei nostri pensieri, nei calcoli dei nostri governanti: come mostro che sempre più prolifera e che teniamo a bada malamente, reagendo quando ormai le cose sono quasi fatte. È un mostro che teniamo a bada malamente perché non l’abbiamo ancora pensato a fondo, e perché il nostro atteggiamento continua a essere passivo, fatalistico, inefficace, dunque irresponsabile. Concepita come arma ultima, l’atomica ha garantito nei decenni della guerra fredda un equilibrio fondato sulla simultanea paura esistenziale dei detentori di bombe: la sopravvivenza del mio popolo è minacciata mortalmente, nello stesso momento in cui scelgo come possibile bersaglio la tua. A questa paura condivisa veniva dato il nome di dissuasione o deterrenza, e il suo effetto fu paralizzante da molti punti di vista. Fu paralizzante in modo positivo, perché immobilizzò in ambedue i contendenti (Occidente e Urss) il desiderio istintivo di annientare l’altro. Ambedue dovettero apprendere una pessimistica razionalità nucleare, che il politologo Aron sintetizzò così: «Pace impos-sibile, guerra improbabile».
La dissuasione non è bastata di per sé a sconfiggere il totalitarismo. È stato necessario che si consolidasse un’ampia resistenza anticomunista a Est, perché la dissuasione desse i suoi frutti e la pace in Europa smettesse di essere falsa, perché impossibile. Ma l’atomica è anche all’origine di una paralisi negativa, che la guerra fredda occultò ma che oggi può diventare mortifera. Non solo ha cessato di essere dissuasiva (la dissuasione è specialmente ardua con Stati teocratici, che s’appropriano della dottrina kamikaze del terrorismo). Si è anche banalizzata a seguito della sua disseminazione, è ormai percepita come praticabile, Bush per primo l’ha messa sullo stesso piano di armi convenzionali. Inoltre è divenuta un attributo simbolico delle grandi potenze, e l’idea stessa di potere e sovranità è associata al suo possedimento: sei nella congrega dei potenti solo se hai l’arma ultima. Sei considerato garante dell’ordine nel mondo a condizione di poterlo annientare completamente. Il potere di nuocere in maniera totale e definitiva è il criterio su cui si misurano sia il potere degli Stati, sia l’equilibrio tra loro: altro criterio non c’è. Poco importa il pericolo che si vuol scongiurare: quel che importa è possedere l’arma dell’apocalisse, che ci rende simili a maestri illimitati e divini del nostro destino.
L’obiettivo dissuasivo che caratterizzò la guerra fredda e il contenimento s’appanna, per cedere il passo all’obiettivo dell’autoaffermazione e della sovranità assoluta degli Stati-nazione. Pensare l’atomica dopo la guerra fredda era il grande compito che le democrazie avevano davanti a sé dopo il 1989, e che hanno mancato in maniera devastante. Non si tratta di meditare solo sulla sua utilità odierna. Si tratta di ripensare un’arma che ha plasmato le nostre mentalità, i nostri modi di dire e agire, la nostra arte della diplomazia e della guerra, finendo col plasmare anche le menti di chi oggi sente come una menomazione non possedere la bomba. È al nostro modello che questi infatti si ispirano, mossi da risentimenti di natura mimetica: quel che hanno constatato dopo l’89 è l’incapacità di avviare un disarmo fra cosiddetti detentori legittimi della bomba (nonostante gli auspici dello stesso Trattato di non proliferazione), ed è il desiderio Usa di mantenere su essa un quasi-monopolio.
Quel che hanno visto è un Trattato che da principio è selettivo: consentendo a chi ha la bomba di tenersela, costringendo altri a rinunciarvi, permettendo a chi la dissimula di non farsi controllare. Tanto più importante è sapere cosa sia oggi l’atomica, cosa significhi la non proliferazione, e come tale possedimento ci paralizzi, non più positivamente. L’atomica ci ha dato la dissuasione e l’improbabilità della guerra guerreggiata, è vero, anche se la guerra è stata improbabile solo tra i due blocchi europei. Ma fondando l’ordine sul potere di nuocere totalmente, come abbiamo visto, essa ha corrotto le menti nostre e di conseguenza quelle altrui. Ecco com’è avvenuto: 1) L’atomica ha sradicato la casistica cristiana della guerra giusta, che dai tempi di Sant’Agostino e Tommaso d’Aquino giustificava la violenza bellica basandosi sul principio del doppio effetto: se il primo effetto è buono e garantisce la salvezza, il secondo effetto (oggi si chiamerebbe collaterale, e consiste nell’uccisione occasionale o accidentale di persone o popoli inermi) è qualcosa di cui il belligerante non può essere moralmente responsabile.
L’atomica cambia la natura del secondo effetto, che da occasionale e accidentale diventa prevedibile e programmato, visto che essa è fatta per distruggere il morale delle popolazioni. Ogni proporzionalità tra mezzi e obiettivi viene spezzata. 2) L’atomica trasforma il caso eccezionale in normalità, la morale del limite in morale corrente. La distruzione completa dell’avversario non è un’eccezione ma la ragion d’essere realistica del nucleare. Su questo punto, come sulla perversione del doppio effetto, vale la pena leggere il bellissimo libro di Thomas Merton, scritto dal monaco trappista negli Anni 60 e pubblicato oggi da Qiqajon: «Sembra che il nostro pensiero etico sia divenuto interamente ossessionato da situazioni rare, strane e si potrebbe aggiungere simboliche, da cui ci è permesso di fuggire con qualcosa che, a giudicare dalle apparenze, è una violazione della legge cristiana dell’amore (…) L’eccezionale violenza è ora la norma del nostro pensiero, mentre la carità è divenuta esotica» (La pace nell’era postcristiana, pp. 134-135). 3) L’atomica è arma religiosa-apocalittica per eccellenza: dissuade dalla fine del mondo, ma con strumenti da fine del mondo. Ovvio che attragga come un magnete i messianesimi politici di nazioni o gruppi teocratici. Ma anche la guerra fredda aveva radici religiose-messianiche – Merton spiega bene anche questo – che oggi vanno riesaminate criticamente. Quando si annuncia che «si è pronti a tutto purché giustizia prevalga», si è già nell’integralismo religioso.
L’occasione del dopo-guerra fredda è stata mancata perché le grandi potenze non volevano rinunciare all’arma, e perché alcune volevano addirittura banalizzarne l’uso. È quel che ha spinto Bush ad abbandonare il negoziato di disarmo con Mosca (Start-2), e poi a elaborare una Strategia nucleare rivista (il Nuclear Posture Review del 2002) che equipara molte atomiche alle armi convenzionali (comprese le atomiche a debole potenza che potrebbero essere impiegate per i siti iraniani sotterrati). Il tabù nucleare viene infranto, le atomiche sono impiegabili anche contro Paesi non nucleari. Da ultime che erano, diventano penultime: è un altro esempio che si dà a chi vorrebbe dotarsi della bomba. Usare l’atomica per primi, dunque come arma praticabile, è stato il primo messaggio di Putin nel 2000, cui Bush ha fatto eco due anni dopo.
A tutto questo s’aggiunga la nebbia che persiste sui rapporti di forza in Medio Oriente: rapporti su cui l’Occidente tace, ma continuamente citati a Teheran. Il non detto è l’atomica israeliana: fra 100 e 200 missili costruiti negli Anni 50-60 da uno Stato che assieme a India e Pakistan non ha firmato il Trattato di non proliferazione. È un silenzio giustificato dai bisogni d’«ambiguità nucleare» di una nazione che nel mondo arabo è minoranza infima. Ma a forza di tacere non si capisce più nulla: né il risentimento, né l’aspirazione mimetica a creare anche in Medio Oriente una guerra fredda simile a quella russo-americana. L’atomica educa all’anomia, che è il venir meno di norme non contraddittorie oltre che chiare.
Di volta in volta ci rende passivi al punto di temere qualsiasi guerra (dottrina degli zero morti), o ci rende spericolati al punto di rischiare tutto accentuando destabilizzazioni e aggressività tipo Iran (guerra in Iraq). Ma soprattutto essa ci abitua a non vedere nell’avversario un possibile interlocutore per negoziati, squassando arti diplomatiche antiche, non scomparse neppure nella guerra fredda. Sharon riteneva che in Palestina non esistessero interlocutori, e in cambio Israele ha oggi il caos a Gaza e il prevalere di Hamas. Anche noi siamo certi di non vedere interlocutori negli Stati che vogliono l’atomica, e ci abituiamo a trattare solo con amici. L’arma ultima è appunto apocalittico-messianica, e precisamente questo corrompe, rovesciando la massima di Aron e cancellando quel che è fattibile fra il tutto e il niente. Ai tempi della guerra fredda la pace era impossibile, la guerra improbabile. Oggi la pace potrebbe esser possibile,ma la guerra è comunque probabile.