Una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione. Non lo ha detto un pericoloso comunista come Beppe Giulietti, nell´infuocato soviet del Botteghino. Lo ha scritto uno dei padri del pensiero scientifico liberale come Karl Popper, nel mirabile saggio “Cattiva maestra televisione”. E allora, oggi, è un sintomo di incoscienza svalorizzare il messaggio del presidente della Repubblica sulla par condicio come l´ennesimo urlo alla luna, disperso nel buio indistinto di una notte repubblicana dove tutte le vacche sono nere. Ed è un atto di impudenza respingerne i contenuti, come hanno fatto Bondi e Cicchitto, affermando che quel messaggio non si presta «a bolle interpretative».
Chi ha parlato con Ciampi, in queste ore, riferisce di un capo dello Stato infastidito dalle reazioni del presidente del Consiglio e della sua corte. All´indignazione per il voltafaccia di Berlusconi sulla data di scioglimento delle Camere si è aggiunta ora la polemica sull´uso dei media alla vigilia della campagna elettorale.
Non è un caso che il Colle abbia voluto esternare la sua preoccupazione sul rispetto di una par condicio «sostanziale», anche prima del decreto di indizione dei comizi elettorali, proprio a ridosso del 29 gennaio. Cioè della data che il premier, alla conferenza stampa del 23 dicembre 2005, aveva indicato ufficialmente come termine della legislatura. Ciampi, per evitare un´altra crisi istituzionale, gli ha accordato una «proroga» di 11 giorni. Ma nello stesso giorno in cui avrebbero dovuto sciogliersi le Camere e sarebbe dovuta scattare la legge sulla par condicio (in base al primo calendario concordato due mesi fa) il presidente ha voluto ammonire la Vigilanza Rai a far rispettare fin da ora «il principio di equità e di sostanziale parità di accesso a tutte le forze politiche».
Con un riflesso di collaudata ipocrisia, i falchi azzurri replicano che l´appello non riguarda il Polo, non chiama in causa Mediaset e comunque il premier ha diritto di difendersi come e dove vuole dagli attacchi dell´opposizione. Ciampi non ha bisogno di esegeti disinvolti. Il suo messaggio nasce da un´evidenza incontestabile, che il presidente della stessa Commissione di Vigilanza Gentiloni gli ha sottolineato in una lettera di una settimana fa. Secondo i dati dell´Osservatorio di Pavia, tra il 7 e il 20 gennaio nei programmi di tutti i generi trasmessi dalla Rai Berlusconi ha «occupato» 27.441 secondi, contro i circa 3.900 di Prodi. Lo squilibrio è lampante. Ed è tutto a vantaggio dell´one man-show di Arcore.
Ciampi sa bene che la par condicio vera e propria non può scattare prima dell´11 febbraio. Ma sa ancora meglio che il pluralismo informativo, l´imparzialità e l´uguaglianza nel servizio pubblico radiotelevisivo sono valori costituzionali, tutelati sempre e a prescindere dalle scadenze elettorali. Su questo il capo dello Stato ha incardinato l´atto più significativo del suo settennato, e cioè il messaggio alle Camere del 23 luglio 2002. Sul piano politico e giuridico, dunque, la lettera trasmessa alla Vigilanza sabato scorso è idealmente collegata al messaggio di quattro anni fa. Il suo «movente», oggi come allora, nasce dal palese conflitto di interessi del Cavaliere. Il suo destinatario è principalmente la Rai, che in quanto servizio pubblico ha un dovere in più sotto il profilo etico-morale.
Il suo obiettivo è far rispettare, qui ed ora, il pluralismo. Gli strumenti ci sono già, anche se colpevolmente inutilizzati: il codice della televisione, il contratto di servizio, lo statuto della Rai. Siano applicati, di qui allo scioglimento delle Camere. L´occupazione dell´etere da parte di un uomo solo non può continuare, nell´indifferenza delle istituzioni di garanzia e nell´insipienza degli organi di controllo.
Ma in questo astioso finale di legislatura, Ciampi ha un altro motivo di irritazione nei confronti del premier. Al Quirinale non è piaciuta l´interpretazione capziosa che Berlusconi ha dato del messaggio presidenziale, che sarebbe il frutto di uno scambio politico: «Quelli del centrosinistra – secondo il Cavaliere – lo hanno convinto che lo ricandideranno per un settennato bis». Una lettura rozza, oltre che ingiusta. Anche in quest´ultimo scampolo di settennato, Ciampi si conferma
il custode severo, ma sempre equidistante, delle regole democratiche. Sta qui la sua forza. Ed è questa la «dignità» con la quale ha detto di voler concludere il suo mandato, rispondendo in ogni suo atto solo alla sua coscienza, e alla Costituzione sulla quale ha giurato. Come scrive Mauro Calise nel libro “La Terza Repubblica” appena uscito da Feltrinelli, «il futuro dei presidenti dipende dalla loro capacità di trasformare la persona in istituzione». Se l´assunto è vero, Ciampi ha centrato in pieno l´obiettivo. Berlusconi, nonostante il suo parossistico tentativo di trasfigurarsi in «monarca repubblicano», non ce l´ha fatta. Dunque non c´è «scambio» possibile, per un uomo che si è fatto istituzione, e che a maggio scenderà dal Colle per servire ancora una volta la Repubblica, nella sua ultima veste di senatore a vita. Ma il solo fatto di evocare lo «scambio», per delegittimare il capo dello Stato e per infangare l´opposizione, dà la misura della sfida mortale lanciata dal Cavaliere.
In meno di due settimane, dal Processo del lunedì a L´incudine, Berlusconi è già intervenuto in tredici trasmissioni radiotelevisive. L´offensiva continuerà ancora. Ciampi, che da domani sarà a Foggia per il 103esimo ed ultimo viaggio nelle province italiane, è pronto a intervenire ancora sui temi del pluralismo informativo, ai quali ha dedicato in sette anni ben 30 interventi. È la conferma della patologia berlusconiana, che dal 1994 è ormai diventata anche l´anomalia italiana. Il saggio di Popper sulla minaccia mediatica, pubblicato proprio in quell´anno fatidico, finiva con queste parole: «Anche i nemici della democrazia non sono ancora del tutto consapevoli del potere della televisione. Ma quando si saranno resi conto fino in fondo di quello che possono fare, la useranno in tutti i modi, anche nelle situazioni più pericolose. Ma allora sarà troppo tardi». Il Cavaliere sta usando il mezzo fino a consumarlo. Ma forse non gli basterà. Per la nostra democrazia non è ancora troppo tardi.