Qualcuno ha calcolato che è stato il quarto dietrofront in pochi giorni. Aveva detto: niente dimissioni di Angelo Rovati. Niente dibattito parlamentare. Non vado alla Camera. Non vado al Senato. Ma alla fine, Romano Prodi si è rassegnato a presentarsi perfino davanti all’aula di Palazzo Madama per parlare di Telecom. La decisione chiude un cerchio. Riscrive e limita gli spazi di manovra del presidente del Consiglio. Ma non perché esistano complotti per sgambettarlo, o alleati in grado di fare a meno della sua leadership.
Approfittando di impuntature ed errori, i partiti dell’Unione ed i vertici del Parlamento si sono tacitamente accordati per piegarlo alla volontà delle Camere.
Di fatto, è stato ridimensionato quello che hanno vissuto e sofferto come strapotere di palazzo Chigi. I «no» prodiani diventati improvvisamente «sì» a denti stretti sono il risultato di questo sordo braccio di ferro istituzionale a distanza. È probabile che l’euforia della missione in Cina e a New York abbia reso più difficile la percezione di quanto stava accadendo in Italia; e che il modo in cui adesso l’opposizione raffigura Prodi sia così strumentale da rasentare la caricatura. Ma qualche novità è spuntata. Riguarda la gerarchia fra governo e Camere; i rapporti fra premier e Unione; e la rilegittimazione del Parlamento a spese del presidente del Consiglio.
Se questo è lo sfondo, il caso Telecom si rivela l’occasione per segnare uno spartiacque. Dopo le elezioni di aprile, Prodi aveva agito con una determinazione ed un piglio tali da costringere l’esercito alleato a seguirlo, seppure mugugnando. Il ruolo del centrosinistra e dei presidenti di Camera e Senato era stato quello di garantirgli copertura politica e parlamentare: magari a colpi di fiducia. In particolare, sembrava funzionare come nel passato l’asse fra il Professore e l’ex segretario del Prc, Fausto Bertinotti, eletto al vertice di Montecitorio. Ma gli ultimi giorni hanno delineato uno scenario nuovo; e meno favorevole al premier.
Quasi in una gara di emulazione, Bertinotti e il numero uno del Senato, Franco Marini, sono stati i più decisi nel pretendere che Prodi spiegasse in prima persona al Parlamento il pasticcio della Telecom. E lo hanno quasi obbligato a fare una cosa che riteneva inutile, e frutto esclusivamente delle trame avversarie. Ma la loro non è stata solo una rincorsa solitaria in nome del prestigio della carica. Bertinotti e Marini sapevano di avere dietro l’insofferenza della maggioranza per il modo di agire del «partito di palazzo Chigi»; e la gran voglia dell’opposizione di annettersi una «vittoria del Parlamento» nei confronti di Prodi, dovuta in realtà solo in parte alla loro pressione.
È stata questa saldatura a costringere il capo del governo ad una ritirata progressiva dalle sue posizioni iniziali; e ad accettare un confronto che fa onore al suo senso di responsabilità e gli consente di riaffermare la leadership dell’Unione. Dopo il suo ultimo «sì», quello ad andare al Senato all’inizio di ottobre, le polemiche ed i sarcasmi del centrodestra sono depotenziati: escono anche formalmente dal recinto delle richieste legittime, e scadono a propaganda. Lo spartiacque, però, rimane. Da ieri, il Parlamento ed i partiti dell’Unione ritengono non solo di avere chiuso un incidente, ma di avere inaugurato una nuova prassi.
È una fase che non prelude al siluramento di Prodi, anzi: ne conferma l’insostituibilità come punto di equilibrio dell’Unione. Ma tende a sancire il ridimensionamento di palazzo Chigi come baricentro del potere ulivista. Rimane da capire fino a che punto il Professore sarà disposto ad assecondare quello che appare come un tentativo esplicito di riscrivere i rapporti di forza interni: una manovra apparentemente riuscita, almeno per ora.