In Germania, dove il Sessantotto ha durevolmente influenzato il linguaggio
e gli stili di vita, le passioni politiche e perfino i modi di consumare, di
crescere economicamente, di far figli, di vivere con l’immigrazione, questi son
giorni importanti, di bilancio e resa dei conti. Fra due settimane i tedeschi
vanno a votare e il loro verdetto sarà anche un giudizio sulla generazione che
negli ultimi sette anni ha governato. Chi prevede la vittoria di Angela Merkel,
la democristiana protestante venuta dalla Germania Est, è convinto che il 18
settembre ci sarà la grande svolta, nella cultura e nella politica della
nazione.
La «lunga marcia attraverso le istituzioni», che il movimento
extraparlamentare iniziò a partire dal 1968 e che trent’anni dopo portò Gerhard
Schröder alla Cancelleria, si è negli anni successivi logorata sino a perdere
ambizioni, senso, memoria di sé. Per Franz Walter, storico dei partiti, la
marcia è precipitata nell’insignificanza nell’attimo stesso in cui si è
realizzata: perché a forza di rompere tabù il movimento ha perso non solo le
visioni errate che aveva ma l’attitudine stessa a darsi una visione che duri più
di un giorno; perché la generazione del ‘68 non è stata capace di creare uno
spazio per la generazione successiva; perché la cultura che impregna il ’68,
detta anche postmaterialista, era fatta per disciplinare e moralizzare
un’economia in crescita, non in recessione. «L’uscita di scena dei
sessantottini, che per trent’anni hanno dominato la socialdemocrazia, apre un
vuoto enorme: personale, mentale, organizzativo», conclude Walter. I nipoti di
Brandt sono una generazione ritardataria: nell’89 invecchiarono d’un sol colpo
per non aver capito quel che accadeva fra le due Germanie, e quando nel ‘98
scalzarono Kohl era troppo tardi per ricominciare la storia come l’avevano
immaginata. Le riforme non erano più sinonimo di ricchezza per tutti, ma di
sacrifici e fatiche. Guai ai nipoti! – Wehe den Enkeln!: i tedeschi usano
quest’espressione, per evocare simili precipizi.
In realtà sarà così comunque, anche se Schröder vincerà una gara che nel
frattempo è divenuta più personale che collettiva, più un soggettivo destino che
il destino della socialdemocrazia. La sua popolarità resta in effetti grande,
superando la fama della Merkel, ma il partito dietro lui frana e perfino la
novità originaria dei Verdi si è consumata. La socialdemocrazia è in lieve
rimonta nei sondaggi ma in questi anni ha perso elettori oltre che iscritti, è
popolata di anziani, ha lasciato che fossero i democristiani ad attrarre il più
gran numero di lavoratori. Perfino il Nuovo Centro cui Schröder s’è aggrappato
nella seconda metà degli Anni Novanta ha smesso di essergli utile: le classi
medie perdenti non si son mostrate solidali con le classi povere che
tradizionalmente votavano Spd, e oggi è proprio in questo centro che s’addensa
la resistenza più conservatrice alle mutazioni avviate da Schröder, e volute
dalla Merkel.
Sacralizzato e immobile, il Nuovo Centro è asfittico anche culturalmente e
ha finito col contagiare la generazione ‘68: rispetto ai tempi di Brandt, di
Schmidt, la Spd è un partito senza più correnti ribelli, senza più forti
contrasti, e questo per Schröder è stato una manna ma anche, subdolamente, una
maledizione. A una sola condizione egli ha potuto e può durare, ed è la morte
del Sessantotto da cui proviene. Di questa morte si parla molto in Germania, nel
tentativo di capire da dove si viene e quel che si è diventati. Come ha scritto
lo storico Giovanni De Luna, la decisione stessa di dare il nome di Rudi
Dutschke a una strada di Berlino è segno di quest’abitudine tedesca a
ripercorrere il proprio passato storico, anche vicinissimo. «Il grande dibattito
tedesco sul ‘‘passato che non passa’’ (…) ha allenato i tedeschi a un rapporto
con la loro storia recente senza reticenze o rimozioni». Ora la sua onda lunga
lambisce il ‘68, trasformando anch’esso in luogo di memoria e amara riflessione
su di sé (La Stampa, 31-8-05).
Fra due settimane si saprà se quel che lascia il ‘68 è davvero un vuoto, di
esperienze e visioni. Un’altra data mitica cerca infatti di farsi strada, di
acquisire legittimità, di divenire memoria che aiuta a conoscersi: è l’anno
1989, che coincide con la caduta del muro di Berlino e della seconda dittatura
in terra tedesca. Fu un movimento anche quello, sfociato prima nella
dissoluzione della Repubblica democratica poi nell’unità della nazione, e Angela
Merkel impersona l’anno che d’un sol colpo ha fatto invecchiare la
socialdemocrazia, e scombussolato la cultura della memoria che i sessantottini
avevano inventato, affinato e monopolizzato. La Merkel è cresciuta a Templin,
nel Nord Brandeburgo, e ha studiato a Lipsia dove con l’aiuto della Chiesa
luterana cominciò la dissidenza: di qui la forza della sua presenza, più fresca
delle sinistre che il potere ha logorato nella vecchia Repubblica
federale.
L’Ottantanove non ha dato a Angela Merkel la potenza che il Sessantotto
diede a uomini come Fischer o Schröder. I deputati non comunisti dell’ex
Germania orientale sono stati una coorte intransigente in questi anni, ma poco
ascoltata. Ascoltati erano soprattutto gli eredi del partito unico, che nei
Länder dell’Est continuano a profittare di rancori che i comunisti stessi hanno
generato col loro quarantennale regime. Ma l’89 ha svelato le debolezze del ‘68,
mettendo in luce la sua cecità verso il totalitarismo comunista e contribuendo
per questa via alla sua consunzione. Tranne alcune eccezioni – Daniel
Cohn-Bendit, Joschka Fischer – i legami tra Sessantotto e dissenso anticomunista
sono stati miseri, come in Italia.
Il Sessantotto che si esaurisce nel momento di realizzarsi è un fenomeno
frequente, e in ogni nazione assume aspetti particolari. La sua vocazione a
infrangere tabù, l’abbiamo visto, ha finito per svuotare principi, progetti,
facendo cadere la mannaia trasgressiva sulle cose stesse in cui il ‘68 credeva.
È un tratto che accomuna la generazione di quegli anni, in Occidente: i suoi
esponenti hanno mostrato di essere volubili, le posizioni che tengono durano
poco, la costanza non è il loro punto forte, la disinvoltura con cui cambiano
bandiere (poiché di bandiere hanno pur sempre bisogno) è profonda. La Germania
non fa eccezione, nemmeno nel caso di persone come Fischer, solo che il
trasformismo ha qui avuto effetti deleteri in politica estera ed
europea.
Fischer era favorevole a un’Europa politica dotata di una costituzione
federale (tale fu il senso della sua allocuzione all’università Humboldt di
Berlino, nel 2000) ma nel frattempo si è ricreduto ed è come se quel discorso
non l’avesse mai tenuto. Non si batte più per un’Europa forte, se necessario
ristretta ai volenterosi. Si è lasciato presto abbattere, ha temuto la
solitudine, e oggi l’adesione della Turchia è infinitamente più urgente, ai suoi
occhi, di un’Unione capace d’assorbire gli allargamenti senza sfasciarsi. L’Iraq
ha creato un conflitto con l’America su cui Fischer non ha né pensato, né
costruito. Anche la battaglia che ha condotto con Schröder, per un seggio
tedesco al Consiglio di sicurezza Onu, è una lotta che dimentica i propositi
europeisti, cancella la cultura postnazionale che caratterizzò il Sessantotto
tedesco, e risuscita speranze completamente illusorie in speciali vie nazionali
per contare nel mondo. Un sessantottino più d’ogni altro voltagabbana è infine
Oskar Lafontaine, che ha giocato tutte le carte – di destra, di sinistra –
fondendo il suo nuovo partito con i postcomunisti dell’Est.
La fine del Sessantotto non ha un significato univoco: alla Germania ha
fatto del bene e del male. Le ha fatto bene, perché Schröder ha potuto avviare
una riforma economica e sociale senza dover soffrire i ribelli nelle retrovie:
grazie ad essa il Paese sta riacquistando forza, anche se i benefici non si
traducono ancora in crescita, occupazione, rinascita socialdemocratica. Le ha
fatto bene, perché grazie ai rosso-verdi la Germania ha reso più severe le
regole d’immigrazione ma ha accettato di divenire, con un nuovo diritto di
cittadinanza, una società abitata da molte culture. Ma il ’68 le ha fatto anche
male, e non solo a causa di voltagabbana e finti trasgressori. Molti mali
tedeschi (degrado demografico, crescita e consumi eccezionalmente deboli) sono
mali antichi che la cultura e la morale del Sessantotto hanno
accentuato.
La cultura dell’89 non ha ancora vinto, con Angela Merkel. Aver avuto
storicamente ragione, contro l’establishment e contro il Sessantotto, ha sfinito
quest’ultimo ma non ha fatto emergere una nuova identità. Se l’89 non fa un
lavoro su se stesso, se non diventa anch’esso un luogo di memoria e meditazione,
è davvero un vuoto gigantesco quello che si apre in Germania, con o senza
Schröder.