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20 Settembre 2006

Il dovere della chiarezza

Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica

È INUTILE cercare scuse. O giocare con le parole, anche se nel linguaggio politico, come insegnava Norberto Bobbio, spesso le parole non sono pietre, ma bolle di sapone. Sul caso Telecom il presidente del Consiglio ha sbagliato. Quando tutto è cominciato, aveva dalla sua una validissima ragione: Tronchetti Provera non l’aveva informato della ristrutturazione societaria varata dal cda dell’azienda. E avrebbe dovuto farlo per ragioni di correttezza e trasparenza, visto che il suo business è la rete telefonica, concessa in licenza dallo Stato.

Da quel momento in poi, Palazzo Chigi ha inanellato una serie di errori a catena. Prima un lungo comunicato ufficiale su un colloquio riservato dai contenuti troppo «sensibili» sotto il profilo finanziario (price sensitive, si dice con il linguaggio degli analisti) per poter essere dati in pasto alla Borsa. Poi una reazione troppo istintiva e auto-conservativa, di fronte all’incidente del rapporto-Rovati sullo scorporo della rete fissa, recapitato sottobanco ai vertici Telecom con tanto di carta intestata della Presidenza del Consiglio. Invece di difendere senza se e senza ma il suo consigliere, il Professore avrebbe fatto meglio a chiedergli le dimissioni immediate, sia pure a malincuore e riconoscendone la buona fede. Avrebbe evitato di stare sulla graticola per un’intera settimana, e di ritrovarsi mediaticamente macchiato l’oggettivo successo diplomatico, politico ed economico del viaggio in Cina.

Non basta. Di fronte alle grida dell’opposizione, e ai maldipancia della maggioranza, Prodi ha fatto suo il solito, vecchio motto autolesionistico: «Se due torti non fanno una ragione prova con tre». Alla prima richiesta di venire in aula a riferire, il premier ha risposto sdegnato «siamo matti?». Due giorni dopo ha fatto una parziale concessione: verranno «i ministri competenti». Ieri abbiamo visto com’è andata a finire. Il presidente del Consiglio si presenterà in aula alla Camera il 28 settembre. Com’era giusto. Ma rischia di arrivare all’appuntamento nelle condizioni peggiori. Bersagliato dal centrodestra, e quasi obbligato dal centrosinistra.

A questo punto, Prodi ha un modo per uscire in positivo da una vicenda nella quale, nonostante tutto, è passato dalla ragione al torto. Presentarsi al Parlamento a viso aperto. E in primo luogo riconoscere quel torto. In secondo luogo, spiegare all’assemblea di Montecitorio qual è la strategia economica e la politica industriale di questo governo, a partire proprio da settori nevralgici come quello delle telecomunicazioni, dell’energia e delle infrastrutture. Informare i mercati che in questo centrosinistra moderno, riformista in politica e liberale in economia, a dispetto di qualche voce testardamente anti-storica ma palesemente minoritaria, non c’è nessuna voglia di Gosplan, nessun intento neo-dirigista, nessuna nostalgia dell’Iri. Chiarire all’opinione pubblica che l’unico obiettivo che questa coalizione persegue (come sta scritto nel programma dell’Unione) è quello di fissare le regole pubbliche della competizione, e poi di lasciare agli operatori privati il compito di garantire, attraverso la concorrenza, i servizi migliori agli utenti e ai consumatori.

Insomma, assumere su di sé l’intera responsabilità politica dell’azione e dell’indirizzo del governo, come gli compete per dovere personale e morale. Non lasciandola sospesa nel limbo pre-politico degli staff e dei collaboratori, irresponsabili davanti agli elettori e agli eletti, come ha scritto questo giornale venerdì scorso. Prodi ha le carte in regola per farlo. Per uscire in positivo dal tunnel delle polemiche. Per mettere a tacere una destra impresentabile, che ha governato per cinque anni, ibridata tra lo statalismo parassitario di An e il liberismo autarchico dei forzaleghisti. Non ha privatizzato neanche una spilla, non ha liberalizzato una sola municipalizzata, e ha risolto felicemente il problema dei rapporti tra Stato e mercato: Silvio Berlusconi li riassumeva entrambi nella sua stessa persona. Se il premier ha sbagliato, non è certo questa improbabile brigata di thatcheriani alle vongole che gli può dare qualche lezione.