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15 Maggio 2006

Il discorso d’insediamento del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

Autore: Giorgio Napolitano

Signor Presidente,
onorevoli deputati,
onorevoli senatori,
signori rappresentanti delle Regioni d’Italia,
è con profonda emozione che mi rivolgo a voi in quest’Aula nella quale ho
speso tanta parte del mio impegno pubblico, apprendendo dal vivo il senso e
il valore delle istituzioni rappresentative, supremo fondamento della
democrazia repubblicana. Sono le assemblee elettive, è innanzitutto il
Parlamento, il luogo del confronto sui problemi del paese, della dialettica
delle idee e delle proposte, della ricerca delle soluzioni più valide e
condivise.

La nuova legislatura si è aperta nel segno di un forte travaglio, a
conclusione di un’aspra competizione elettorale, dalla quale gli opposti
schieramenti politici sono emersi entrambi largamente rappresentativi del
corpo elettorale. L’assunzione delle responsabilità di governo da parte
dello schieramento che è sia pur lievemente prevalso rappresenta
l’espressione naturale del principio maggioritario che l’Italia ha assunto
da quasi un quindicennio come regolatore di una democrazia dell’alternanza
realmente operante.

Ma in tali condizioni più chiara appare l’esigenza di una seria riflessione
sul modo di intendere e coltivare in un sistema politico bipolare i rapporti
tra maggioranza e opposizione. Non si tratta di tornare indietro rispetto
all’evoluzione che la democrazia italiana ha conosciuto grazie allo stimolo
e al contributo di forze di diverso orientamento.

Ma il fatto che si sia instaurato un clima di pura contrapposizione e di
incomunicabilità, a scapito della ricerca di possibili terreni di impegno
comune, deve considerarsi segno di un’ancora insufficiente maturazione nel
nostro paese del modello di rapporti politici e istituzionali già
consolidatosi nelle altre democrazie occidentali.

Ebbene, è venuto il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza
anche in Italia. Il reciproco riconoscimento, rispetto ed ascolto tra gli
opposti schieramenti, il confrontarsi con dignità in Parlamento e nelle
altre assemblee elettive, l’individuare i temi di necessaria e possibile
limpida convergenza nell’interesse generale, possono non già mettere in
forse ma, al contrario, rafforzare in modo decisivo il nuovo corso della
vita politica e istituzionale avviatosi con la riforma del 1993 e le
elezioni del 1994. Ciò potrà avvenire solo ad opera delle forze politiche
organizzate e delle loro rappresentanze nelle istituzioni rappresentative,
sorrette dalla consapevolezza e dal dinamismo della società civile.

A chi vi parla, chiamato a rappresentare l’unità nazionale, spetta
semplicemente trasmettere oggi un messaggio di fiducia, in risposta al
bisogno di serenità e di equilibrio fattosi così acuto e diffuso tra gli
italiani. Sono convinto che la politica possa recuperare il suo posto
fondamentale e insostituibile nella vita del paese e nella coscienza dei
cittadini. Può riuscirvi quanto più rifugga da esasperazioni e
immeschinimenti che ne indeboliscono fatalmente la forza di attrazione e
persuasione, e quanto più esprima moralità e cultura, arricchendosi di nuove
motivazioni ideali.

Tra esse, quella del costruire basi comuni di memoria e identità condivisa,
come fattore vitale di continuità nel fisiologico succedersi di diverse
alleanze politiche nel governo del paese. Ma non si può dare memoria e
identità condivisa, se non si ripercorre e si ricompone in spirito di verità
la storia della nostra Repubblica nata sessanta anni fa come culmine della
tormentata esperienza dello Stato unitario e, prima ancora, del processo
risorgimentale.

Ci si può – io credo – ormai ritrovare, superando vecchie laceranti
divisioni, nel riconoscimento del significato e del decisivo apporto della
Resistenza, pur senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni. Ci si
può ritrovare – senza riaprire le ferite del passato – nel rispetto di tutte
le vittime e nell’omaggio non rituale alla liberazione dal nazifascismo come
riconquista dell’indipendenza e della dignità della patria italiana. Memoria
condivisa, come premessa di una comune identità nazionale, che abbia il suo
fondamento nei valori della Costituzione. Il richiamo a quei valori trae
forza dalla loro vitalità, che resiste, intatta, ad ogni controversia. Parlo
– ed è giusto farlo anche nel celebrare il sessantesimo anniversario
dell’elezione dell’Assemblea Costituente – di quei “principi fondamentali”
che scolpirono nei primi articoli della Carta Costituzionale il volto della
Repubblica. Principi, valori, indirizzi che scritti ieri sono aperti a
raccogliere oggi nuove realtà e nuove istanze.

Così, il valore del lavoro, come base della Repubblica democratica, chiama
più che mai al riconoscimento concreto del diritto al lavoro, ancora lontano
dal realizzarsi per tutti, e alla tutela del lavoro “in tutte le sue forme e
applicazioni”, e dunque anche nelle forme ora esposte alla precarietà e alla
mancanza di garanzie. I diritti inviolabili dell’uomo e il principio di
uguaglianza, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione”, si integrano e completano nella Carta europea, aperta ai nuovi
diritti civili e sociali. Essi non possono non riconoscersi a uomini e donne
che entrano a far parte, da immigrati, della nostra comunità nazionale
contribuendo alla sua prosperità. Il valore della centralità della persona
umana viene a misurarsi con le nuove frontiere della bioetica.

L’unità e indivisibilità della Repubblica si è via via intrecciata col più
ampio riconoscimento dell’autonomia e del ruolo dei poteri regionali e
locali. Si rivela lungimirante come fattore di ricchezza e apertura della
nostra comunità nazionale la tutela delle minoranze linguistiche. Essenziale
appare tuttora il laico disegno dei rapporti tra Stato e Chiesa, concepiti
come, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.

La libertà e il pluralismo delle confessioni religiose sono state via via
sancite, e ancora dovranno esserlo, attraverso intese promosse dallo Stato.
Presentano poi una pregnanza ed urgenza senza precedenti, tanto lo sviluppo
della cultura e della ricerca scientifica e tecnica, quanto la tutela del
paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione. Infine, i
valori, tra loro inscindibili, del ripudio della guerra e della
corresponsabilità internazionale per assicurare la pace e la giustizia nel
mondo, si confrontano con nuove, complesse e dure prove. Ebbene – Signor
Presidente, onorevoli parlamentari, signori delegati regionali – chi può
mettere in dubbio la straordinaria sapienza, e rispondenza al bene comune,
dei principi e valori costituzionali che ho voluto puntualmente
ripercorrere? In questo senso, è giusto parlare di unità costituzionale come
sostrato dell’unità nazionale.

Un risoluto ancoraggio ai lineamenti essenziali della Costituzione del 1948
non può essere scambiato per puro conservatorismo. I costituenti si
pronunciarono a tutte lettere per una Costituzione “destinata a durare”, per
una Costituzione rigida ma non immutabile, e definirono le procedure e
garanzie per la sua revisione. Nei progetti volti a rivedere la seconda
parte della Costituzione che si sono via via succeduti, non sono stati mai
messi in questione i suoi principi fondamentali.

Ma già nell’Assemblea Costituente si espresse – nello scegliere il modello
della Repubblica parlamentare – la preoccupazione di “tutelare le esigenze
di stabilità dell’azione di governo e di evitare le degenerazioni del
parlamentarismo”. Quella questione rimase aperta e altre ne sono insorte in
anni più recenti, anche sotto il profilo del ruolo dell’opposizione e del
sistema delle garanzie, in rapporto ai mutamenti intervenuti nella
legislazione elettorale.

La legge di revisione costituzionale approvata dal Parlamento mesi or sono è
ora affidata al giudizio conclusivo del popolo sovrano; si dovrà comunque
verificare poi la possibilità di nuove proposte di riforma capaci di
raccogliere il necessario largo consenso in Parlamento. Esprimo il più
sentito e convinto omaggio al mio predecessore Carlo Azeglio Ciampi per
l’esemplare svolgimento del suo mandato, e in special modo per l’impulso a
una più forte affermazione dell’identità nazionale italiana e di un
rinnovato sentimento patriottico.

Nello stesso tempo, nessun ripiegamento entro confini e orizzonti
anacronistici. Come già si disse, precorrendo i tempi, all’Assemblea
Costituente, l’Europa è per noi italiani una seconda patria. Lo è diventata
sempre di più nei quasi cinquant’anni che ci separano da quei Trattati di
Roma che portano la firma, per l’Italia, di Antonio Segni e di Gaetano
Martino: e il cammino dell’integrazione e costruzione europea cominciò ancor
prima, ispirato dalle profetiche intuizioni di Benedetto Croce e di Luigi
Einaudi, guidato dall’incontro tra i diversissimi apporti di personalità
come Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli, lo statista lungimirante e il
paladino del movimento federalista, entrambi né meschinamente realisti né
astrattamente utopisti. La crisi che da un anno ha investito l’Unione
europea non può in alcun modo oscurare il cammino compiuto e far liquidare
il grande progetto della costruzione comunitaria come riflesso di una fase
storica, quella del continente diviso in due blocchi contrapposti,
conclusasi nel 1989.

In effetti non solo si è portata a compimento la più grande impresa di pace
del secolo scorso nel cuore dell’Europa, non solo si è realizzato uno
straordinario e duraturo avanzamento economico e sociale, civile e culturale
nei paesi che si sono via via associati al progetto, ma si sono poste le
radici di un irreversibile moto di avvicinamento e integrazione tra i
popoli, le realtà produttive, i sistemi monetari, le culture, le società, i
cittadini, i giovani delle nazioni europee.

Non potranno arrestare questo processo le difficoltà pur gravi incontrate
dall’iter di ratifica del Trattato costituzionale: l’Italia – dopo che il
suo governo e il suo Parlamento hanno tra i primi provveduto alla ratifica
di quel Trattato – è fortemente interessata e impegnata a creare le
condizioni per l’entrata in vigore di un testo di autentica rilevanza
costituzionale.

Ci inducono a riflettere ma non potranno fermarci i fenomeni di disincanto e
di incertezza indotti nelle opinioni pubbliche da un serio rallentamento
della crescita dell’economia e del benessere, da un palese affanno nel far
fronte sia alle sfide della competizione globale e del cambiamento di pesi e
di equilibri nella realtà mondiale, sia alle stesse prove dell’allargamento
dell’Unione. Di certo non esiste dinanzi a queste sfide alcuna alternativa
al rilancio della costruzione europea.

L’Italia solo come parte attiva della costruzione di un più forte e dinamico
soggetto europeo, e l’Europa solo attraverso l’unione delle sue forze e il
potenziamento della sua capacità d’azione, potranno giuocare un ruolo
effettivo, autonomo, peculiare nell’affermazione di un nuovo ordine
internazionale di pace e di giustizia. Un ordine di pace nel quale possa
espandersi la democrazia e prevalere la causa dei diritti umani, e insieme
assicurarsi un governo dello sviluppo che contribuisca a scongiurare
tensioni e rischi di guerra, e ponga un argine all’intollerabile, allarmante
aggravarsi delle disuguaglianze a danno dei paesi più poveri, dei popoli
colpiti da ogni flagello come quelli del continente africano.

La strada maestra per l’Italia resta dunque quella dell’impegno
europeistico, come il Presidente Ciampi ha in questi anni appassionatamente
indicato. E in ciò egli ha incontrato, io credo, il sentire profondo ormai
maturato soprattutto nelle nostre giovani generazioni, il cui animo italiano
fa tutt’uno con l’animo europeo, e che non vedono avvenire se non
nell’Europa. La priorità dell’impegno europeistico nulla toglie alla
profondità dell’adesione dell’Italia a una visione dei rapporti
transatlantici, dei suoi storici legami con gli Stati Uniti d’America e
delle relazioni tra Europa e Stati Uniti, come cardine di una strategia di
alleanze, nella libera ricerca di approcci comuni ai problemi più
controversi e nella pari dignità.

È in tale contesto che va affrontata senza esitazioni e ambiguità la
minaccia così dura, inquietante e per tanti aspetti nuova, del terrorismo di
matrice fondamentalista islamica, senza mai offrire a questo insidioso
nemico il vantaggio di una nostra qualsiasi concessione alla logica dello
scontro di civiltà, di una nostra rinuncia al principio e al metodo del
dialogo tra storie, culture e religioni diverse. Non è illusorio pensare che
questa cornice degli orientamenti di politica internazionale dell’Italia
possa essere condivisa dagli opposti schieramenti politici.

Entro questa cornice spetta al governo e al Parlamento indicare iniziative
atte a contribuire al dialogo e al negoziato tra Israele e l’Autorità
palestinese nel pieno riconoscimento del diritto dello Stato di Israele a
vivere in sicurezza e del diritto del popolo palestinese a darsi uno Stato
indipendente. Ed è ora di mettere al bando l’arma del terrorismo suicida e
di contrastare fermamente ogni rigurgito di antisemitismo. Si impongono
egualmente iniziative volte alla soluzione della ancora aperta e sanguinosa
crisi in Iraq, alla stabilizzazione del processo democratico in Afghanistan,
alla ricerca di uno sbocco positivo per lo stato di preoccupante tensione
con l’Iran.

Più specificamente, compete al governo e al Parlamento definire le soluzioni
per il rientro dei militari italiani dall’Iraq. Oggi, non può che accomunare
quest’Assemblea l’omaggio riverente e commosso a tutti i nostri caduti, che
hanno rappresentato il prezzo così doloroso di missioni all’estero assolte
con dedizione e onore, qualunque sia stato il grado di consenso nel
deliberarle.

Onorevoli parlamentari, signori delegati regionali, se rivolgo ora lo
sguardo dal cruciale orizzonte europeo allo stato del nostro paese e al
quadro delle nostre dirette responsabilità, posso solo consentirmi brevi
considerazioni, senza affacciarmi in un campo che è, più di ogni altro,
proprio del confronto tra diverse impostazioni e posizioni politiche. Posso,
anche qui, esprimere solo un messaggio di fiducia, senza indulgere a
diagnosi pessimiste sull’inevitabile declino del nostro sistema economico e
finanziario, ma nemmeno sottovalutando la gravità delle debolezze da
superare e dei nodi da sciogliere. Il nodo – innanzitutto – del debito
pubblico. E insieme, le debolezze del sistema produttivo.

Le imprese italiane hanno mostrato di saper raccogliere la sfida che viene
dall’operare in un mercato aperto e in libera concorrenza e di volersi
impegnare in un serio sforzo per la crescita, l’innovazione e
l’internazionalizzazione. Esse chiedono allo Stato non di introdurre o
mantenere indebite protezioni, ma di favorire la competitività del sistema e
gli investimenti privati e pubblici, nonché di riprendere quel processo di
sviluppo infrastrutturale che tanta parte ebbe nella crescita del secondo
dopoguerra. Ma all’esigenza di rimuovere limiti e vincoli ingiustificati, si
accompagna quella di assicurare regole e controlli efficaci ed efficienti.

Il nostro paese non può rinunciare alle sue grandi tradizioni in campo
industriale e agricolo, che ancora si esprimono in rilevanti prove di
progresso anche tecnologico: tali da dar luogo di recente a casi di
straordinario recupero in gravi situazioni di crisi e da animare nuove,
vitali realtà produttive. Nello stesso tempo, appare indispensabile
rafforzare e modernizzare il settore dei servizi, e valorizzare con coraggio
e lungimiranza il patrimonio naturale e paesaggistico, culturale e artistico
senza eguali di cui l’Italia dispone.

Di qui passa anche qualsiasi politica per il Mezzogiorno, le cui regioni
diventano un asse obbligato del rilancio complessivo dello sviluppo
nazionale anche per la loro valenza strategica nella nuova grande
prospettiva dei flussi di investimenti e di scambi tra l’area
euromediterranea e l’Asia. Né occorre che io aggiunga altro a questo
proposito, signori parlamentari e delegati regionali, per la profondità
delle radici e delle esperienze politiche e di vita che mi legano al
Mezzogiorno: non occorrono altre parole per affidarvi un auspicio così
intimamente sentito.

Sono più in generale le mie complessive esperienze politiche e di vita che
mi inducono ad associare con forza il problema del rilancio della nostra
economia a quello della giustizia sociale, della lotta contro le accresciute
disuguaglianze e le nuove emarginazioni e povertà, dell’impegno più
conseguente per elevare l’occupazione e il livello di attività della
popolazione, il problema non eludibile del miglioramento delle condizioni
dei lavoratori e dei pensionati e di una rinnovata garanzia della dignità e
della sicurezza del lavoro. C’è bisogno di più giustizia e coesione sociale.

E se un ruolo decisivo spetta in questo senso ai sindacati, posti peraltro
di fronte a un mercato del lavoro in profondo cambiamento che richiede forti
aperture all’innovazione, è interesse e responsabilità anche delle forze
imprenditoriali comprendere e assecondare politiche di coesione e di
solidarietà. Quando ci domandiamo – dinanzi a problemi così complessi e a
vincoli così pesanti – se possiamo farcela, dobbiamo guardare alle risorse
di cui dispone l’Italia. Sono le risorse delle istituzioni regionali e
locali che esercitano le loro autonomie in responsabile e leale
collaborazione con lo Stato e contando sull’impegno unitario della pubblica
amministrazione al servizio esclusivo della nazione.

Sono, insieme, le risorse di un ricco tessuto civile e culturale, da cui si
sprigiona un potenziale prezioso di sussidiarietà, per l’apporto di cui si è
mostrato e si mostra capace il mondo delle comunità intermedie,
dell’associazionismo laico e religioso, del volontariato e degli enti non
profit. Sono le risorse della partecipazione di base, che le istituzioni
locali tanto possono stimolare e canalizzare. E sono le risorse delle
famiglie: come quelle che abbiamo visto in queste settimane stringersi
attorno alle spoglie dei caduti di Nassirya e di Kabul.

Famiglie laboriose e modeste che educano i loro figli al senso del dovere
verso la patria e verso la società. Famiglie che rappresentano la più grande
ricchezza dell’Italia. E ancora, abbiamo da contare – mi si lasci ricordare
la splendida figura di Nilde Iotti – sulle formidabili risorse delle energie
femminili non mobilitate e non valorizzate né nel lavoro né nella vita
pubblica: pregiudizi e chiusure, con l’enorme spreco che ne consegue, ormai
non più tollerabili.

Contiamo infine sulle risorse che possono essere attribuite ai giovani,
uomini e donne in formazione, da un sistema di istruzione che fino al più
alto livello offra a tutti uguali opportunità di sviluppo della persona, e
premi il merito e la dedizione allo studio e al lavoro. Da tutto ciò le
ragioni di una non retorica fiducia nel futuro del nostro paese. Il nostro
futuro tuttavia è legato anche a problemi come quelli che ormai si collocano
nel grande scenario dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia.

Resta assai dura la sfida della lotta contro la criminalità, una presenza
aggressiva che ancora tanto pesa sulle possibilità di sviluppo del
Mezzogiorno, così come contro le nuove minacce del terrorismo internazionale
e interno. Ci dà però fiducia il fatto che lo Stato ha mostrato anche negli
ultimi anni di poter contare sull’azione efficace e congiunta della
magistratura e delle forze dell’ordine, alle quali tutte – avendo io stesso,
da responsabilità di governo, imparato a meglio conoscerne e apprezzarne
l’impegno e lo slancio – desidero indirizzare il più vivo nostro
riconoscimento.

Certo, i problemi della legalità e della moralità collettiva si presentano
ancora aperti in modi inquietanti e anche in ambiti che avremmo sperato ne
restassero immuni. Mentre sono purtroppo rimaste critiche le condizioni
dell’amministrazione della giustizia, soprattutto sotto il profilo della
durata del processo.

E troppe tensioni circondano ancora i rapporti tra politica e giustizia,
turbando lo svolgimento di una così alta funzione costituzionale e ferendo
la dignità di coloro che sono chiamati ad assolverla. Anche in questo
delicatissimo campo, sono esigenze di serenità e di equilibrio, negli stessi
necessari processi di riforma, quelle che si avvertono e chiedono di essere
soddisfatte. Seri e complessi sono dunque gli impegni cui debbono far fronte
la politica e le istituzioni.

L’Italia vive un momento difficile: ma drammatico, non solo difficile, fu il
periodo che l’Italia visse negli anni successivi alla fine della guerra e
alla Liberazione, dovendo accollarsi un’eredità di terribili distruzioni
materiali e morali e superare anche le scosse di un conflitto elettorale e
ideale come quello che divise in due il paese nella scelta tra monarchia e
repubblica. Prevalse allora – la prova più alta la diede l’Assemblea
Costituente – ed ebbe ragione di tutte le difficoltà il senso della missione
nazionale comune : che fu più forte di pur legittimi contrasti ideologici e
politici.

Così, oggi, il mio appello all’unità non tende a edulcorare una realtà di
aspre divergenze soprattutto ai vertici della politica nazionale, ma proprio
a sollecitare tra gli italiani un nuovo senso della missione da adempiere
per dare slancio e coesione alla nostra società, per assicurare al nostro
paese il ruolo che gli spetta in Europa e nel mondo. Ed è un appello che può
forse trovare maggiore rispondenza in quell’Italia profonda, l’Italia delle
cento province, l’Italia della fatica quotidiana e della volontà di
progredire, che il mio predecessore ha voluto esplorare traendone l’immagine
di una concordia di intenti e di opere più salda di quanto comunemente si
ritenga. Considero mio dovere impegnarmi per favorire più pacati confronti
tra le forze politiche e più ampie, costruttive convergenze nel paese ; ma è
un impegno che svolgerò con la necessaria sobrietà e nel rigoroso rispetto
dei limiti che segnano il ruolo e i poteri del Presidente della Repubblica
nella Costituzione vigente.

Un ruolo di garanzia dei valori e degli equilibri costituzionali; un ruolo
di moderazione e persuasione morale, che ha per presupposto il senso e il
dovere dell’imparzialità nell’esercizio di tutte le funzioni attribuite al
Presidente. Come rappresentante dell’unità nazionale, raccolgo il
riferimento ben presente nel messaggio augurale indirizzatomi dal Pontefice
Benedetto XVI – al quale rivolgo il mio deferente ringraziamento e saluto:
raccolgo il riferimento ai valori umani e cristiani che sono patrimonio del
popolo italiano, ben sapendo quale sia stato il profondo rapporto storico
tra la cristianità e il farsi dell’Europa.

E ne traggo la convinzione che debba laicamente riconoscersi la dimensione
sociale e pubblica del fatto religioso, e svilupparsi concretamente la
collaborazione, in Italia, tra Stato e Chiesa cattolica in molteplici campi
in nome del bene comune. Nel momento in cui inizia il suo mandato, il
Presidente della Repubblica rende omaggio alla Corte Costituzionale, come
organo di alta garanzia che da cinquant’anni veglia sul pieno rispetto della
nostra legge fondamentale; al Consiglio Superiore della Magistratura,
espressione e presidio dell’autonomia e indipendenza di quell’ordine da ogni
altro potere; a tutte le amministrazioni pubbliche, a tutti gli organi e i
corpi dello Stato, e in particolare alle Forze Armate italiane che si
distinguono per sempre più alti livelli di moderna professionalità ed
efficienza, così come alle diverse e distinte forze preposte con convergente
impegno alla tutela del bene essenziale della sicurezza dei cittadini. Un
segno di particolare attenzione va al mondo della scuola e dell’Università e
a quanti sono chiamati a tenerne alta la funzione educativa.

Al mondo dell’informazione va indirizzato un convinto impegno a garantirne
la libertà e il pluralismo come condizione imprescindibile di democrazia.
Rivolgo un grato e rispettoso pensiero a tutti i miei predecessori,
personalità rappresentative di diverse correnti ideali e tradizioni
popolari, ritrovatesi nel primato dei valori essenziali: libertà, giustizia,
solidarietà.

Uno speciale ricordo per il primo Presidente della Repubblica Enrico De
Nicola, che fu simbolo di pacificazione in un contrastato passaggio storico
e al quale fui legato da rapporti di antica amicizia famigliare e dal comune
impegno, in diverse epoche, a rappresentare in Parlamento la nostra grande,
generosa e travagliata città di Napoli. Signor Presidente, onorevoli
parlamentari, signori delegati, mi inchino dinanzi a questa Assemblea nella
quale si riconoscono tutti gli italiani, per la prima volta anche quelli che
operano all’estero, le cui comunità hanno finalmente voce per far sentire le
loro esigenze ed attese.

Non sarò in alcun momento il Presidente solo della maggioranza che mi ha
eletto; avrò attenzione e rispetto per tutti voi, per tutte le posizioni
ideali e politiche che esprimete; dedicherò senza risparmio le mie energie
all’interesse generale per poter contare sulla fiducia dei rappresentanti
del popolo e dei cittadini italiani senza distinzione di parte.
Viva il Parlamento!
Viva la Repubblica!
Viva l’Italia!