È stato il bacio della pantofola di Massimo D’Alema, ministro degli Esteri, vicepremier e presidente dei Ds? Molti hanno così interpretato la parata di manager pubblici, banchieri e industriali al convegno della Fondazione Italianieuropei. Ma è possibile anche un’altra lettura. A Sesto San Giovanni si è cominciato a ragionare di una incipiente quarta stagione del tormentato rapporto tra politica e imprese.
Una stagione nella quale il governo rialza la testa e l’economia rivendica il diritto a investire dove rende e non sempre e solo dove sventola il tricolore.
Questa possibile quarta stagione arriva dopo che se ne sono esaurite altre di segno diverso: la prima, tra gli anni ’50 e ’60, con le grandi imprese pubbliche e private che dettano la politica industriale; la seconda, che dura fino ai primi ’90, con i partiti che conquistano le Partecipazioni statali e l’insieme delle imprese che vive di svalutazioni competitive della lira e di sviluppo drogato dalla spesa pubblica e dalle protezioni di Tangentopoli; la terza, che comincia nel 1992 con la globalizzazione e la rincorsa dell’euro, l’apertura alla banca universale e la crisi delle grandi imprese, le inchieste giudiziarie e il trionfo della cultura antipolitica che, per citare la sintesi che ne ha fatto ieri D’Alema, porta l’economia impersonata da Berlusconi a impadronirsi addirittura di Palazzo Chigi.
Che questo trionfo dell’economia non abbia dato i risultati attesi non lo ha fatto osservare soltanto il leader diessino: lo ha riconosciuto anche Luca Cordero di Montezemolo, la cui presidenza, peraltro, aveva posto fine, già prima delle elezioni, a un certo collateralismo del suo predecessore verso il governo. Ma la consistenza della quarta stagione non si gioca solo sulla distinzione dei ruoli. La politica che rialza la testa si dà l’obiettivo di dire e fare le cose giuste per oggi e per domani. Di regolare e promuovere l’attività delle imprese nel quadro di una economia che si liberalizza senza le illusioni del mercatismo di dieci anni fa.
Mentre Gian Maria Gros-Pietro spiegava perché non si costruiscono più autostrade, il viceministro dei Trasporti, Cesare De Piccoli, commentava sotto voce: «E pensare che l’Autostrada del Sole è stata fatta in sette anni». In questo rimpianto, interessante in un ex comunista, emerge la consapevolezza che il proliferare delle autonomie locali e l’eccesso di ecologismo, assai diffuso a sinistra, rischiano di diventare un freno alla modernizzazione del Paese. Ma forse Fedele Cova poté realizzare il suo capolavoro perché alla concessionaria bastava un profitto modestissimo, che consentiva di quadrare conti e pedaggi: la società Autostrade non era ancora diventata un’occasione di speculazione finanziaria com’è accaduto con la privatizzazione fatta dal centrosinistra e peggiorata dal centrodestra.
Forse, per far rinascere un altro Cova, non basta dire che Antonio Di Pietro è statalista perché vuol imporre all’Anas di eseguire i controlli sui concessionari fuori da ogni collusione. Certo, così possono entrare in conflitto i diritti dei consumatori con quelli degli azionisti, ma la politica diventa forte quando, se capita, sa scegliere tra industria e finanza. Nella quarta stagione sembra in via di esaurimento l’approccio mitologico alle privatizzazioni.
I diessini hanno pagato il loro tributo di neofiti del capitalismo. E ora ragionano in modo più laico. Con la piena approvazione del padrone di casa, Enrico Letta, che diessino non è, ha evocato l’esempio delle municipalizzate tedesche che si sono unite formando un colosso (che è la Rwe e non la E.On com’è stato detto). E mentre il direttore del Sole 24 Ore, Ferruccio de Bortoli, chiedeva quale dovrebbe essere la proprietà del nuovo colosso italiano, Fulvio Conti raccontava dell’Enel che aveva guardato Rwe, ma se ne era ritratta per le condizioni draconiane poste dai tedeschi.
Come quaglia questa realtà con l’auspicio del banchiere Alessandro Profumo a lasciar liberissimo campo al mercato dei diritti di proprietà e con gli appelli di Montezemolo alle liberalizzazioni? La politica che rialza la testa ieri, con D’Alema, ha dato una risposta a Profumo e Montezemolo: «Se disarmo ci deve essere, che sia bilanciato». Ma non l’ha data a de Bortoli, se non generica. Forse perché il partito dei sindaci è, in questo, più forte del governo. O forse perché un conto è Alitalia, dove lo Stato ha fallito, e un altro conto è il settore energetico, dove i privati avevano la Edison e se la sono giocata per le loro lotte di potere.