All’Eliseo da meno
di tre mesi, Nicolas Sarkozy si è già abbattuto come un ciclone sulle insicurezze della
Francia e dell’Europa. Il «liberale colbertista », come lo ha definito Mario Monti su queste
colonne, sfugge alle categorie politiche del passato e si fa gioco delle loro rigidità
ideologiche, sconcerta i partner con il suo decisionismo à la carte, proclama il trionfo
di un pragmatismo ottimista e impetuoso che lo lascia libero tanto di cooptare collaboratori
socialisti quanto di impadronirsi, senza badare alle accuse di scippo provenienti da Bruxelles,
del rilascio delle infermiere bulgare in Libia.
La rupture annunciata in campagna elettorale
indubbiamente c’è. E sarebbe un errore credere che si tratti soltanto di uno stile nuovo,
di quell’effetto immagine che Sarkò, con l’aiuto di una Cécilia non più distratta, proietta
a piene mani. Perché il post-ideologico Sarkozy una sua ideologia mostra di averla: le
riforme interne e la politica estera devono contribuire entrambe al ritorno in auge della
Nazione, nessun tormento storico e pochi condizionamenti esterni possono frapporsi alla
riscoperta di una grandezza sovrana cui la Francia ha diritto, e lo Stato deve recuperare
efficienza e severità proprio perché dalle sue scelte di indirizzo dipende la riscossa
nazionale. Sarkozy non ignora le interdipendenze del mondo globalizzato, vuole anzi che
in questo mondo la Francia si attrezzi per dire la sua con più forza. Ma la volontà di
restituire il primato alla Nazione spinge il Presidente a vedere anche le vulnerabilità
dell’economia globale, a comprendere la rabbia di chi si sente omologato o minacciato (ieri
dall’idraulico polacco, oggi dall’operaio-schiavo cinese), e a condonare, se questo è nell’interesse
nazionale, forme di protezionismo industriale.
Non può stupire, allora, che in sede europea
Sarkò abbia contribuito a far nascere quel mini- trattato che per primo aveva proposto,
che l’Eliseo sia in polemica con l’«eccessiva» indipendenza della Banca Centrale, che agli
obblighi del Patto di stabilità sia stata chiesta e ottenuta una nuova deroga, che sulla
politica estera comune Parigi sia diventata più che cauta, che il principio della concorrenza
libera e non distorta sia stato svilito nella forma e contestato nella sostanza. Con l’eccezione
di quest’ultimo punto, l’europeismo di Nicolas Sarkozy somiglia a quello tradizionale della
Gran Bretagna ben più che agli slanci ideali del vecchio partner tedesco. Non possiamo
ancora sapere, oggi, se gli elementi che abbiamo schematicamente indicato sfoceranno in
una forma di unilateralismo alla francese o se il ritorno dello Stato-Nazione a Parigi
prenderà la via della moderazione dopo i primi entusiasmi presidenziali.
Ma una cosa la
sappiamo già: la determinazione e il decisionismo di Sarkozy imprimono all’Europa un ritmo
che non le è proprio, e portano fatalmente (Polonia permettendo) a un litigioso direttorio
anglo-franco-tedesco. Litigioso come dimostrano le critiche tedesche all’accordo nucleare
con Gheddafi o alle idee di Sarkò sull’euro, ma pur sempre direttorio di Stati. Nei nuovi
equilibri europei l’Italia rischia di rimanere senza sponde (puntare sulla Spagna sarebbe
fonte di ennesime delusioni), e soprattutto rischia che la sua perenne instabilità interna
le imponga una emarginazione decisionale ancor più marcata di quella odierna. Non è più
tempo, per i nostri politici, di strumentalizzare la vittoria elettorale di Sarkozy. E’
tempo di capire che la sua presidenza deve darci la sveglia.