Di fronte alle allarmate (e reiterate) esortazioni di Romano Prodi, sarebbe grottesco reagire con stizza, quasi che i tempi di costruzione del partito democratico fossero da scegliere come i ritmi consigliati di una corsa podistica: strategia della lentezza degli apparati dei partiti contro gli impulsi dell’accelerazione da parte del leader designato, passo da maratoneta da contrapporre alle pulsioni da scattista del candidato premier. Prodi non è il capo bizzoso che brandisce l’arma del cronometro per piegare i riottosi e i ritardatari.
Più semplicemente, sembra spronare i suoi alleati a non rimandare tutti gli impegni a un futuro immerso nei vapori della vaghezza. Anzi, a far vivere qualcosa del partito democratico già nei comportamenti e nelle scelte di oggi, a cominciare dai criteri di selezione delle candidature e di formazione della lista unica. Invece, le parole di Prodi vengono lette ogni volta come un ultimatum, un diktat o addirittura un sottile ricatto. Ogni volta si muove l’esercito dei recalcitranti prigionieri della sindrome del cronometro che intonano la litania dello scontento e della diffidenza: «non bruciare le tappe», «niente fughe in avanti», «no alle accelerazioni », «nessuna scorciatoia».
Da notare che il candidato alla premiership del centrosinistra non ha detto che il partito democratico va solennemente fondato nel giro di pochi giorni e addirittura prima della scadenza elettorale,masoltanto che bisognerebbe spiegare come mai le forze costituenti del nuovo partito siano d’accordo a sciogliere, «in prospettiva» beninteso, le rispettive insegne e tuttavia riluttino con tanta animosità a presentarsi con lo stesso simbolo nelle elezioni per il Senato. Una scelta che può essere giusta o sbagliata,mache certo non è finalizzata, come pure è stato detto, a «umiliare » chicchessia o addirittura ad affondare il coltello nella piaga che sta recando tanto dolore ai Ds.
Inoltre, l’appello di Prodi appare del tutto immune dalla fastidiosa retorica del «popolo delle primarie» in rivolta contro le oligarchie che pure spesso accompagna gli argomenti pro-partito democratico. Che cosa c’entrano allora gli inviti alla «prudenza» e alla «pazienza» variamente modulati dal fronte degli scontenti? Eperché tessere l’elogio della lentezza come ad assegnare a Prodi il ruolo del pilota spericolato e ossessionato a tal punto dal demone della velocità da correre il rischio di distruggere la macchina dell’Unione?
Per fortuna non tutti hanno reagito alle parole di Prodi con la stessa insofferenza. Intervistato da Repubblica, Vannino Chiti, il dirigente dei Ds vicino alla segreteria di Piero Fassino che già sarebbe meritevole di lode per essere stato fra i primi a sollecitare al suo partito un atteggiamento meno tremebondo sul caso Fazio e una rilettura autocritica meno reticente sulla vicenda Unipol, Chiti, dicevo, ha colto il nocciolo dell’esortazione prodiana fissando all’inizio del 2007 l’avvio della fase costituente vera e propria del nuovo partito democratico e nelle elezioni europee del 2009 la data entro la quale il nuovo simbolo farà il suo debutto nell’arena elettorale. Si potranno discutere i tempi tracciati da Chiti (e certo qualche mese, almeno qualche settimana in meno avrebbe dato un alone di maggiore urgenza all’impegno di costruire un nuovo partito).
Ma almeno nelle parole del dirigente diessino si legge il tentativo di prendere sul serio la prospettiva del partito democratico (sulla quale si spendono da tempo due leader del centrosinistra come Rutelli e Veltroni) e di non porre solo limiti, veti e intimazioni al silenzio. E di comprendere come, nella forbice che divide un leader che continuamente ma vanamente esorta ad andare avanti e una nomenklatura che si ammutina contando sulla forza dell’inerzia e della resistenza passiva, non si gioca soltanto il destino del partito democratico, ma anche la credibilità di una coalizione che intende vincere le prossime elezioni. E in questo caso i tempi, cronometro alla mano, sono davvero brevi.