19 Dicembre 2006
Il corto circuito dei poteri deboli
Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica
Dopo Silvio Berlusconi, Luca di Montezemolo.
Un altro Imprenditore d´Italia. Un altro capo in azienda che si candida a diventare il leader del Paese.
Sarebbe dunque lui il «Pim Fortuyn italiano», che Giuliano Amato teme come ennesimo sbocco neo-populista della nostra transizione incompiuta e del nostro disincanto anti-politico? Qualcuno nutre il legittimo sospetto.
Il presidente della Confindustria si presenta a «Domenica In» e a domanda «lei entrerebbe in politica» risponde «mai dire mai». Il ministro dell´Economia Padoa-Schioppa fa due più due, e di fronte alle critiche degli industriali sulla Legge Finanziaria risponde «Confindustria in questa vicenda si comporta come un partito».
Chi ha ragione? In parte tutti e due. E dunque tutti e due, simmetricamente, hanno torto. Montezemolo ha ragione, quando segnala i rischi di un impatto recessivo della manovra sulla crescita del prossimo anno.
I fatti dimostreranno se sia giusta o meno la previsione del centro studi confindustriale, che prevede una minor crescita del Pil dello 0,3% per effetto degli inasprimenti fiscali e dell´operazione sul Tfr decisi dal governo. Per inciso, si può ricordare che a metà ottobre anche il governatore della Banca d´Italia, nella sua audizione in Parlamento, aveva avvertito che «la ripartizione dell´aggiustamento degli squilibri tra entrate e spese può influire sulle prospettive di sviluppo dell´economia» e che «un incremento della pressione fiscale aumenta le distorsioni scoraggiando il lavoro, gli investimenti privati e l´accumulo di capitale…». Eppure, allora, nessuno si sognò di dire che Mario Draghi si comporta «come un partito».
Padoa-Schioppa, per contro, ha ragione quando dimostra che questa Finanziaria, tra cuneo fiscale e crediti d´imposta, prevede benefici tutt´altro che trascurabili per la media e grande industria. Anche su questo punto, fanno testo le parole pronunciate da Draghi nella stessa audizione alla Camera: «La riduzione degli oneri per le imprese attenua le distorsioni del mercato del lavoro e rafforza nel breve termine la competitività del sistema produttivo». E dunque le tante, troppe critiche che si levano dal mondo dellla produzione sono difficilmente sostenibili, se non alla luce di quella che lo stesso ministro dell´Economia definisce «l´opinione politica che si era manifestata in Confindustria nei mesi precedenti».
In queste due visioni contrapposte, entrambe fondate, c´è un vizio di fondo, uguale e contrario. Montezemolo ha avuto il merito di riportare Confindustria sui binari neutrali della concertazione, dopo la rovinosa virata ideologica del suo predecessore, che tra la crociata sull´articolo 18 contro il sindacato e l´abbraccio di Parma con il Cavaliere aveva lasciato sul campo solo macerie. Ma al di là del sacrosanto esercizio di critica nei confronti del governo, non può non vedere che anche la sua associazione di categoria, nel panorama sempre più frammentato della società italiana, agisce come una lobby molecolare.
Anche Confindustria incarna solo una delle tante rabbie particolari senza riuscire più a definire un «interesse generale». Padoa-Schioppa, a sua volta, ha avuto il merito di firmare una manovra che riporta l´Italia sui binari virtuosi del risanamento, dopo la disastrosa gestione economica del suo predecessore, che tra condoni tombali e cartolarizzazioni epocali si era mangiato l´avanzo primario.
Ma al di là dell´ennesima valutazione critica nei confronti della Finanziaria, non può non vedere che il vero deficit di questa manovra del centrosinistra sta proprio nel suo polimorfismo culturale. Tra macro-riforme confuse (l´Irpef) e micro-misure diffuse (dal bollo auto alle palestre), la Finanziaria non ricompone, ma piuttosto riflette l´atomizzazione crescente del tessuto sociale.
Per questo è contestata, dai «borghesi» di Piazza San Giovanni come dagli operai della mitica Mirafiori. Perché non riesce a indicare un «bene comune», in nome del quale si impartiscono sacrifici o si redistribuiscono risorse.
Il tema vero, che emerge dalla contesa tra il presidente di Confindustria e il ministro dell´Economia, è in fondo uno solo. Lo ha indicato con la consueta lucidità di analisi Giuseppe De Rita, sull´ultimo numero della rivista Aspenia. Nella sua frantumazione irreversibile, quella italiana è ormai diventata una «società degli interessi». Il suo dramma sta nel progressivo indebolimento delle strutture capaci di elaborare una «sintesi intermedia». Sotto questo profilo, Montezemolo e Padoa-Schioppa sono lo specchio di una stessa debolezza. Da una parte la rappresentanza politica, dall´altra la rappresentanza sociale. Nel caso particolare è quello del ceto produttivo. Ma nel quadro generale c´è anche il famoso ceto medio, che ormai sfugge sempre di più al perimetro dell´associazionismo sindacale e a quello del lavoro autonomo.
Qui nasce il corto circuito. In questo vuoto di legittimazione e di rappresentanza, dove prolifera la moltiplicazione degli interessi. Qui sta anche il pericolo. Per Amato si chiama «onda populista», per De Rita «rischio oligarchico». Ma la sostanza è la stessa. Se la politica non sa dare contenuto alla missione, e i corpi intermedi non sono più capaci di fare supplenza, ogni equivoco diventa possibile. Chiunque può illudersi di risolvere il problema «da sé». Per Montezemolo può essere una tentazione. Per Padoa-Schioppa può essere una spiegazione. Ma né l´una né l´altra hanno in tasca la soluzione.