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10 Novembre 2004

Il Cavaliere nel suo labirinto

Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica

C´è un solo precedente, nella storia repubblicana di questi ultimi decenni, di una maggioranza battuta così clamorosamente alla Camera sulla Legge Finanziaria. Capitò al povero Giovanni Goria, capo di un governo pentapartito stanco e sfilacciato, nel febbraio del lontano 1988. Diciassette anni dopo, quel mesto spettacolo da Prima Repubblica agonizzante si ripete. Il governo Berlusconi, non meno stanco e sfilacciato di quello di Goria, va sotto al primo colpo, addirittura sull´articolo 1. E questo, davvero, non si era mai visto. Passa un emendamento dell´opposizione che riscrive il saldo netto da finanziare. Cioè l´architrave della Finanziaria, intorno alla quale si poggiano tutti i saldi di entrata e di uscita dell´Amministrazione dello Stato. Cambiata quella cifra, tutto il resto della manovra è da buttare. Ma tra allora e adesso rimane comunque una differenza quasi epocale. Di sostanza, e anche di forma. Bersagliato dal «fuoco amico» dei franchi tiratori, Goria fece almeno il doveroso gesto di salire al Quirinale e offrire le sue dimissioni al presidente della Repubblica Cossiga, che le respinse e lo rinviò alle Camere per una nuova fiducia. Estenuato dalle defezioni sospette dei suoi stessi alleati, Berlusconi non sembra invece in grado di offrire più niente a nessuno. Assediato nella Fortezza Bastiani di Palazzo Grazioli, il Cavaliere vuole restare a tutti i costi inchiodato alla sua poltrona. Fino all´ultimo giorno del quinto anno di governo, per avere almeno la garanzia di finire nel guinness dei primati nazionali. Ma non riesce più a trovare vie d´uscita. Nel 2001 la Casa delle libertà era la sua invenzione vincente. Nel 2004 si è trasformata nel suo labirinto. Allora si era dato una missione politica: «cambiare». Ora è preda di un´ossessione psicologica: «durare».

Qualcuno, nel Polo, tenta di rubricare la bocciatura dell´articolo 1 della Finanziaria come il solito, spiacevole «incidente di percorso». Sul piano tecnico, tutto sommato, lo è davvero: a Montecitorio produrrà il tragicomico effetto di un dibattito d´aula del tutto virtuale, una colorita ed inutile fiction sul resto di una Legge temporaneamente invalidata, in attesa che al Senato il centrodestra ci metta una pezza ripristinando in 50 miliardi di euro il saldo netto da finanziare. Ma sul piano politico, com´è del tutto evidente e come ha detto senza mezzi termini il presidente della Camera, il voto di ieri è molto più grave. «È una pistolettata al governo», ha detto il ministro Siniscalco allo stesso Berlusconi. L´hanno sparata (con il dolo o la colpa, non conta neanche poi tanto) i troppi deputati di An e Udc assenti al momento del voto in aula. E il colpo è partito alla vigilia di quello che doveva essere l´ennesimo e (in teoria) stavolta decisivo vertice della maggioranza. Quello che nella notte avrebbe dovuto sigillare il nuovo «baratto di fine legislatura»: rimpasto di governo, con Fini alla Farnesina e Baccini ministro, e magari anche Follini vicepremier insieme al leghista Calderoli, in cambio del via libera degli alleati al pacchetto di sgravi fiscali da 6 miliardi, con l´aumento delle deduzioni per le famiglie, le tre aliquote Irpef più il contributo etico a carico dei redditi più alti. Dopo la «pistolettata» del pomeriggio, e a pochi

minuti dall´inizio della cena a Palazzo Chigi, non c´era uno solo dei leader invitati pronto a scommettere un euro sul buon esito del vertice. «Berlusconi è furibondo, altro che Termidoro… », confidava Casini. Con queste premesse, è quanto meno azzardato immaginare un premier disponibile a concessioni sugli incarichi ministeriali e a mediazioni sugli sconti fiscali. E forse la cosa, a questo punto, è persino irrilevante. Basterebbero davvero, sia i primi che le seconde, a permettere a questa maggioranza di sopravvivere a se stessa È palese la natura politicamente «aberrante» dello scambio proposto da Berlusconi. Una redistribuzione delle poltrone di governo serve a tenere imbrigliati i partiti al carro dell´alleanza.

Una redistribuzione di «mancette» fiscali serve a lucrare consensi in vista delle regionali del 2005 e delle politiche del 2006. Il guaio è che gli alleati, per motivi diversi, non avvertono l´urgenza e l´esigenza dello scambio. Fini ha un solo vantaggio a incassare il ministero degli Esteri: salvare la faccia di fronte al suo partito, visto che dopo aver ottenuto la testa di Tremonti, non si è ritrovato niente in mano, se non lo scalpo inservibile dell´ex ministro del Tesoro. Ma non ha alcun interesse a sostenere una «riforma fiscale» che dà più benefici ai ricchi e che la destra sociale di An gli rinfaccerebbe per la vita. Follini ha una sicura priorità: evitare la «cartolina precetto» che gli impone di entrare al governo come

vicepremier, per il semplice fatto che non crede più al destino comune di questa coalizione, al prezzo di perdersi un pezzo dell´Udc. Nel frattempo coltiva una sola speranza: se proprio questa modesta «riforma fiscale» si deve fare, cercare di «intestarsi» almeno quelle poche migliaia di euro destinate alla famiglia. Bossi, attraverso Calderoli, ha una sola necessità: partecipare a tutti i tavoli, alzando sempre e comunque la posta, per non vedere la Lega trasformata in un partito che, incassata la devolution nella riforma costituzionale, si ritrova ormai senza più una «ragione sociale».

Questa è, oggi, la Casa delle libertà. Questa è oggi l´armata Brancaleone che il Cavaliere si trova a guidare. Altro che Bush e la destra americana. Altro che «Dio, patria e famiglia». Altro che «capitalismo compassionevole» e ownership society. L´orologio della politica, per il centrodestra, sembra tornato indietro di cinque mesi. A quel «maledetto luglio», quando sembrava che il Polo fosse a un passo dalla rottura. «Oggi siamo di nuovo lì: in uno stato di pre-crisi», assicura uno dei leader della coalizione. E uno dei ministri più

autorevoli, ieri sera, concludeva sconsolato: «Per questi stare al governo è come aver fatto una vacanza in barca: dopo tre anni non si sopportano più».