28 Febbraio 2006
I poteri di Bruxelles e la guerra di Suez
Autore: Mario Monti
Fonte: Corriere della Sera
L’annuncio della fusione Gaz de France/Suez, in contrasto con le ambizioni di Enel sulla stessa Suez, ha acceso un dibattito ricco di emotività, più che di lucidità.
Vorrei aiutare i lettori a capire questa complessa vicenda e i problemi più generali che essa solleva, in questa fase promettente ma delicata dello sviluppo del mercato unico.
Dal punto di vista dell’Enel e dello Stato italiano, la lucidità avrebbe suggerito, ieri, che l’intenzione di Enel di lanciare un’Opa ostile non venisse preannunciata.
E suggerirebbe, oggi, di non fasciarsi la testa prima che sia rotta, ma anche di valutare con concretezza se, e in che cosa, il progetto di fusione violi qualche norma comunitaria.
Non è ancora certo che l’intenzione di Enel sia definitivamente frustrata. L’Opa preannunciata sarebbe stata ostile. Ebbene, quello che si è verificato nei giorni scorsi è che la vittima predestinata dell’ostilità ha messo in campo le proprie difese.
Ma sarebbe strano se l’ipotesi di una fusione con GdF non fosse stata considerata da Enel come una delle possibili reazioni di Suez. Certo, il governo francese ha chiaramente mostrato di non gradire l’intenzione di Enel.
Ma non sarebbe il primo caso di un’Opa che riesce a realizzarsi malgrado l’avversione di un governo.
Del resto, lo stesso governo francese, così come quello lussemburghese, non ha certo manifestato entusiasmo per l’Opa di Mittal su Arcelor, ma non per questo Mittal ha disarmato.
Contro Enel, tuttavia, lo Stato francese non si è limitato alle parole. E’ passato ai fatti, promuovendo la fusione della propria controllata GdF con la privata Suez.
Ogni giudizio è legittimo, sul piano politico: da «Guarda questi francesi, come sanno “fare sistema”!» a «Ma che senso ha aprire i mercati se poi nei mercati giocano grandi imprese di Stato?».
Se però si va oltre, e si chiede l’intervento dell’Unione Europea, sarebbe utile indicare quali norme europee si ritiene siano state violate.
Non si può escludere, a priori, che l’intervento dello Stato francese e la fusione GdF/Suez comportino problemi, sotto il profilo delle norme del mercato unico e della concorrenza.
Ma non è neppure ovvio, almeno a prima vista, che questo sia il caso. Si è detto: questa è una nazionalizzazione, per proteggere Suez dall’attacco di un’impresa estera.
Ma le norme europee sono neutrali, tra proprietà pubblica e privata. Una nazionalizzazione non è contraria alle norme, così come l’Unione Europea non può imporre a uno Stato di privatizzare.
Non risulta che né l’Italia né altri Stati membri abbiano mai proposto, in occasione delle diverse revisioni, di modificare questo principio basilare del Trattato di Roma.
Inoltre, in base a quanto per ora è dato di comprendere, l’aspetto prevalente assomiglia piuttosto a una privatizzazione. A seguito dell’operazione la quota di partecipazione dello Stato francese al capitale di GdF, che oggi è dell’80%, diminuirà sensibilmente.
E qui si cela una difficoltà per il progetto che, vista in un’altra prospettiva, potrebbe costituire un piccolo varco dischiuso dalla Francia «sociale» alle intenzioni italiane: i potenti sindacati di GdF si oppongono a questa operazione, che essi vedono come «totale privatizzazione » dell’azienda.
Ciò potrebbe comportare difficoltà nelle strade e in Parlamento, dove il governo dovrà ottenere una modifica della legge che attualmente stabilisce nel 70% la soglia minima della partecipazione dello Stato.
Le norme europee non ostacolano le imprese pubbliche, ma non consentono che queste, esattamente come le imprese private, ostacolino il funzionamento del mercato unico e della concorrenza.
Se si ritiene che l’operazione francese debba essere bloccata dalla Commissione europea, è in queste direzioni che occorrerebbe guardare.
Sotto un particolare profilo, è molto probabile che l’operazione debba comunque essere esaminata dalla Commissione: la sua compatibilità con le regole sulle concentrazioni, a tutela della concorrenza.
Esistono, in linea generale, altri possibili profili di esame. Pone problemi, questa operazione, dal punto di vista della libertà di movimento dei capitali o della libertà di stabilimento?
Vi sono in essa aspetti che possano far pensare ad abusi di posizioni dominanti? Vi si possono riscontrare aiuti di Stato?
Si può configurare come aiuto di Stato l’intervento, sotto l’esplicita regia dello Stato, di un’impresa controllata dallo Stato che ha come obiettivo, o conseguenza, di evitare ad un’impresa privata di finire preda di un’Opa ostile?
Non conosco il caso, se non dalla lettura dei giornali. Mi sembra però che sarebbe nell’interesse di tutte le parti in causa— italiane, francesi ed altre—e nell’interesse del mercato, e perciò dei consumatori, che il dibattito non prescindesse dalla griglia sopra delineata, cioè dai termini concreti in cui eventuali interventi della Commissione potrebbero essere invocati.
Se dovessero manifestarsi gli estremi per interventi della Commissione, non v’è ragione di dubitare che la Commissione interverrebbe. Anche contro la Francia? Certo.
Negli ultimi anni la Commissione non ha esitato a far valere le norme comunitarie pure di fronte alle resistenze più agguerrite opposte dagli Stati membri più grandi.
Per limitarci alla Francia, basterà ricordare i casi di Electricité de France (abolizione della garanzia di Stato, obbligo di rimborso di 1,2 miliardi di euro di aiuti di stato), di Alstom (no al progetto del governo di far «salvare» Alstom dall’ impresa pubblica Areva, paletti stretti all’intervento dello Stato nel capitale di Alstom, con obblighi di disinvestimenti e altri impegni per ristabilire la concorrenza), di France Télécom (obbligo di rimborso di un rilevante aiuto di Stato configuratosi in seguito ad annunci e comportamenti dello Stato azionista).
Un altro esempio, più indietro nel tempo. Di fronte alle cosiddette «svalutazioni competitive» della lira del 1995-96, il governo francese fece pressioni sulla Commissione affinché lo autorizzasse a compensare con aiuti la propria industria tessile e calzaturiera penalizzata dalle produzioni italiane.
La Commissione disse no. Un ultimo esempio, attuale. La Commissione oggi in carica ha annunciato che vaglierà con molta attenzione le misure che la Francia intende introdurre, nella legge sulle Opa e altrove, contro acquisizioni dall’estero.
Naturalmente, il suo vaglio non potrà esigere più «liberalismo» di quello, scarso, presente nella direttiva europea sull’Opa, varata sotto presidenza italiana nel 2003. E’ davvero un peccato che l’Italia, che ha da tempo una delle leggi Opa più avanzate, si sia adoperata dapprima per non fare approvare nel luglio 2001 la precedente proposta di direttiva, più «liberale» (in quel caso, governo e parlamentari europei riuscirono a «fare sistema», e autogol) e poi per fare approvare la modesta direttiva del 2003, così facendo un grosso regalo alla Germania e alla Francia.