Nel decennio 1996-2005 l´economia italiana è cresciuta al misero ritmo annuo dell´1,3 per cento: ben meno di due terzi di quello dell´economia europea, noi inclusi, e dunque ancor meno nel confronto con gli altri paesi.
Si era sperato che la ripresa degli ultimi due anni ci rimettesse in pista: macché, in termini relativi abbiamo mantenuto la stessa distanza. Le previsioni per i prossimi anni degli istituti di ricerca (Cer, Prometeia) non promettono nulla di meglio: se valgono, nel quinquennio 2006-2010 la crescita italiana resta ostinatamente inferiore a quella dell´Unione; solo in cinque anni, di quindici avremo superato l´1,5 percento. Da inizio secolo, il nostro prodotto per abitante è caduto al di sotto della media europea, e continua a cadere. I salari sono rimasti bassi e il loro aumento è stato modesto. Eppure, con una produttività del lavoro piatta e con quella totale dei fattori diminuita, i nostri costi relativi sono aumentati.
Quindici anni, o anche dodici al netto delle previsioni, sono un periodo lungo, che si dipana su fasi diverse – favorevoli e avverse – del ciclo economico: quando le cose vanno bene, facciamo meno bene degli altri, quando vanno male, facciamo peggio. Gianni Toniolo evocava il rapido declino di Venezia nel ‘600; Francesco Giavazzi evoca la sorte dell´Argentina, retrocessa da grande potenza economica agli inizi del secolo scorso alla modesta posizione di paese in cerca di sviluppo. Tocchiamo pure legno e consoliamoci con gli episodi recenti di ristrutturazione delle imprese e con i sintomi di ripresa qualitativa delle esportazioni. Ma si deve nondimeno riconoscere: che un problema esiste, con dimensioni strutturali; che la sua origine non può essere ricondotta a eventi come l´euro o l´entrata prepotente degli attori asiatici nel commercio internazionale, perché le altre economie europee, anche le meno forti, li hanno assorbiti senza troppi danni; che le cause vere sono molteplici e finiscono per aggravarsi a vicenda.
Il presidente del Consiglio sembra esserne consapevole, quando, nelle sue brevi ma notevoli dichiarazioni al Senato, produce una corposa lista delle cose che non vanno da noi, al di là di quelle che non vanno nel mondo: produzione energetica troppo costosa (e non solo per rinuncia al nucleare); deficit delle infrastrutture materiali (strade, ferrovie, metropolitane); massimo debito pubblico e costo eccessivo della pubblica amministrazione; record di evasione fiscale accoppiato con un livello troppo elevato delle aliquote; posto infimo nelle classifiche internazionali di competitività, di grado di istruzione, di informatizzazione; tasso di occupazione, soprattutto femminile, più basso che altrove; minimi investimenti stranieri. La lista meriterebbe integrazioni: altro record nella durata dei processi civili, con sostanziale lesione dei diritti di proprietà («giustizia tardiva è giustizia negata», diceva un presidente della Suprema Corte americana); ostacoli perduranti alla concorrenza in alcuni settori; frammentazione estrema del sistema delle imprese, che investono assai meno in ricerca delle loro consorelle straniere. Comunque, il sintetico e deprimente quadro della situazione del Paese offerto dal Presidente rende plausibile l´affermazione di averne «ben chiare le cause». Quello che invece per ora manca è un´indicazione dei mezzi da mettere in opera per rimuoverle, affermandosi solo che «cerchiamo di impostare dei rimedi, soprattutto quelli che si rendono urgenti e indispensabili», senza tuttavia definirli e solo avvertendo che alcuni di essi «richiederanno misure difficili, misure impopolari».
Se i problemi sottesi alla semi-stagnazione dell´economia italiana hanno (voce più voce meno) la dimensione, l´intrico e la complessità che paiono trasparire dalle brevi enunciazioni del presidente del Consiglio, essi non possono essere affrontati con un approccio incrementale, diluito nel tempo e un po´ alla volta. Meno che mai possono essere risolti nei mitici ed esecrabili “cento giorni”, solitamente sprecati da ogni governo nel soddisfare qualche improvvida promessa di campagna elettorale con misure costose e poco o nulla influenti sulla crescita, perché estranee al contesto di un disegno che intervenga sulle carenze strutturali del sistema. Se il resto di questa primavera e la ventura estate fossero impiegate nella definizione di un disegno siffatto, si potrebbe in autunno spendere meno tempo sui dettagli della solita Legge finanziaria e dedicarne di più a un serio dibattito politico sulla rotta di medio periodo che il Governo, per quanto tocca alle sue responsabilità, dovrebbe proporre e seguire per curare i mali oscuri dell´economia italiana. Unità, in questo, di maggioranza e opposizione? Per nulla. Acquisita una comune consapevolezza dei problemi da affrontare e della necessità di affrontarli tutti insieme, resta ampio, e necessario, lo spazio per il confronto fra impostazioni e filosofie politiche anche profondamente diverse.