1 Luglio 2005
I lunghi silenzi dell’alleato Bush
Autore: Franco Venturini
Fonte: Corriere della Sera
La convocazione a Palazzo Chigi dell’ambasciatore americano è un atto dovuto ma anche paradossale. Nel senso che l’incontro, destinato a sollecitare chiarimenti ufficiali sul rapimento a Milano dell’imam Abu Omar ad opera di tredici uomini della Cia, ha pochissime probabilità di diventare qualcosa di più di un dialogo tra sordi.
Da parte italiana la smentita del ministro Giovanardi è stata forte e chiara: il governo non sapeva, come ha invece sostenuto il Washington Post, e non sapevano le «istituzioni nazionali».
Vogliamo credere senz’altro a Giovanardi. Ma ci chiediamo, se nessuno sapeva, come mai gli agenti della Cia si siano lasciati alle spalle tracce evidenti, che nemmeno l’ultimo degli apprendisti 007 avrebbe seminato: si sentivano tranquilli, credevano di essere «coperti», oppure la Cia deve tornare a scuola?
E poi, se nessuno sapeva, è rassicurante per la nostra sicurezza che un sequestro di persona con relativo trasferimento all’estero avvenga nell’indifferenza generale? E ancora, proprio perché nessuno sapeva, come mai la convocazione dell’ambasciatore non ha avuto luogo la scorsa settimana, quando i giudici hanno emesso gli ordini di arresto?
L’imbarazzo italiano promette di essere pesante, e l’unica certezza è che siamo tristemente tornati ai tempi del sequestro Sgrena e dell’uccisione di Calipari: chi ha informato chi, chi sapeva e chi non sapeva, quali tortuose vie ha seguito la comunicazione con l’alleato americano se mai c’è stata.
Da parte Usa, poi, esiste una usanza ormai antica: l’unica informazione che può essere data sull’attività dei servizi è un bel «no comment» . E saremmo davvero sorpresi se l’ambasciatore statunitense a questa regola venisse meno per compiacere Berlusconi.
L’odierna gita di Mel Sembler a Palazzo Chigi, insomma, non si annuncia esattamente come una occasione di svolta. Ma la convocazione, che di norma è un preciso segnale di tensione diplomatica, rimane.
E rimane il fatto che è la seconda in meno di quattro mesi, dopo il mancato chiarimento sull’affare Calipari. Un ritmo che si verifica talvolta tra Paesi se non proprio ai ferri corti, certamente in rapporti tesi.
Non ingannino le apparenze. Subito dopo il G-8 in programma a Gleneagles la prossima settimana, George Bush sarà gradito ospite di Silvio Berlusconi in Sardegna. E tutte le voci ufficiali o semplicemente informate, a Roma come a Washington, non si stancano di ripetere che le relazioni Italia-Usa sono ottime.
Più che mai dopo che gli americani hanno garbatamente silurato la candidatura della Germania al consiglio di sicurezza dell’Onu. Allora, dov’è che i conti non tornano? Forse non tornano nell’impostazione originale della politica estera del governo, che accentuando e personalizzando una amicizia-alleanza con gli Usa costante in tutto il dopoguerra, può aver trasmesso oltre oceano il segnale indebito del «pronti a tutto».
Oppure è da noi che qualcosa non funziona, che vengono confezionate versioni dei fatti difensive e politicamente convenienti. Di sicuro, mentre siamo tristemente certi che sull’imam di Milano non conosceremo mai la completa verità, due lezioni dovrebbero rimanere a futura memoria.
La prima è che se gli Usa vogliono guidare la lotta contro il terrorismo devono darsi regole di comportamento che gli alleati possano accettare e rispettare. La seconda, riferita all’Italia, è che in uno Stato degno di questo nome nessuna amicizia e nessuna alleanza autorizzano a chiudere un occhio sulla tutela della propria sovranità.