Il rifiuto della dottrina della guerra preventiva – inaccettabile in linea di principio e foriera di instabilità e tensioni, come l’Iraq ha drammaticamente dimostrato – non può farci archiviare una domanda che nell’era della globalizzazione si è fatta sempre più stringente: come possiamo promuovere diritti umani, civili, politici laddove essi vengono sistematicamente negati da orrende dittature e regimi antidemocratici
La sinistra democratica deve e può misurarsi con questo nodo liberandosi di due idee vecchie e sbagliate: che si possano scindere le libertà civili dai diritti economici e sociali e che la sovranità nazionale possa essere una soglia invalicabile di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. Amartya Sen ci ha insegnato che non può esistere sviluppo senza libertà, che la democrazia è un potente fattore di equità sociale e che soltanto un pregiudizio può farci ritenere che essa sia patrimonio esclusivo della cultura occidentale.
Lottare per una globalizzazione più giusta, per sconfiggere la povertà e il sottosviluppo richiede contemporaneamente di lottare per l’estensione dei diritti e della democrazia nel mondo. Non ci può essere un prima, la lotta alla fame, e un dopo, la lotta per il diritto alle libertà individuali.
Né il pur importante rispetto delle sovranità nazionali e delle differenze culturali o religiose può essere frapposto al dovere di impedire che interi popoli, etnie, gruppi vengano uccisi o privati di diritti umani essenziali. La sicurezza collettiva nel mondo globale o è di tutti oppure non è. I nuovi mezzi di comunicazione di massa, d’altra parte, hanno reso possibile – fortunatamente – la circolazione delle idee e delle informazioni come mai prima d’ora. Ciò da un lato distrugge l’alibi di chi poteva dire – di fronte a gravi violazioni dei diritti umani – “ma io non sapevo” e, dall’altro, produce nuovi fermenti democratici in paesi fino a poco tempo fa chiusi e inaccessibili. Ciò che accade in Medio Oriente ma anche nelle Repubbliche sorte dalla dissoluzione dell’Urss, e per alcuni aspetti perfino alcuni fermenti che si manifestano in Cina, sono un buon esempio di questo nuovo contesto.
Ecco, credo che la critica – ferma, legittima e giusta – che noi abbiamo rivolto alla dottrina dei neocons americani non debba far velo su un punto: proprio perché siamo convinti che la democrazia non si possa “esportare sulle canne dei fucili” occorre, a maggior ragione, che la comunità internazionale sappia dotarsi di altri strumenti per aiutare i popoli oppressi a liberarsi dalle dittature e assicurare agli individui di vedere rispettati i loro diritti umani fondamentali. Insomma: per evitare nuove guerre preventive serve una strategia di “politica preventiva” capace di promuovere il rispetto dei diritti essenziali delle persone in ogni contesto etnico, religioso, nazionale. E la sinistra democratica deve considerare questo un suo obiettivo prioritario. Non sempre l’abbiamo fatto, talora accettando e chiudendo gli occhi – in nome di un relativismo culturale infondato – di fronte a violazioni e oppressioni che mai avremmo ammesso nei nostri paesi.
Parte di qui la strategia per il rilancio e la riforma delle istituzioni multilaterali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Se non vogliamo lasciare a un solo paese, per quanto potente, il diritto di decidere dove e quando c’è da difendere la democrazia e i diritti, è indispensabile avere un sistema di istituzioni sovranazionali efficace e autorevole. Le Nazioni Unite possono svolgere il ruolo di garanti della legalità internazionale se sapranno assumere su di sé la responsabilità di proteggere le popolazioni civili dalla violenza, dall’oppressione, dai genocidi. Il tentativo in atto, promosso da Kofi Annan, di rafforzare l’efficacia dell’ONU e di indicare anche nuovi criteri guida, sulla base dei quali le Nazioni Unite dovrebbero autorizzare l’uso della forza, è un passo coerente ed interessante, che andrebbe sostenuto.
Estendere la democrazia, difendere e affermare i diritti umani è dunque un compito al quale non ci possiamo sottrarre e su questo terreno l’Europa può e deve esercitare un ruolo importante, aprendo una nuova fase di dialogo e cooperazione con gli stessi Stati Uniti. Europa e Stati Uniti hanno avuto opinioni divergenti sulla guerra in Iraq. Ma entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro. Tanto più di fronte ai nuovi scenari che si delineano in Medio Oriente e nel mondo arabo. E, anzi, proprio il vento nuovo che soffia nei paesi islamici sollecita Europa e Stati Uniti a superare le loro divisioni, per darsi una strategia comune che sostenga i processi di secolarizzazione culturale ed evoluzione democratica in atto in quelle regioni. Anche perché quei processi non sono affatto al riparo da riflussi o colpi di coda. Per l’Iraq è urgente accelerare la transizione democratica, con il coinvolgimento anche della comunità sunnita e una graduale restituzione della piena sovranità agli iracheni e alle loro istituzioni. Per israeliani e palestinesi i prossimi mesi saranno cruciali, per l’avvio del piano di disimpegno da Gaza e per le elezioni legislative di luglio nei Territori palestinesi. Per il Libano sarà determinante favorire dialogo e incontro delle diverse componenti di opposizione per far sì che al ritiro delle truppe siriane segua una proposta di governo del paese.
E le annunciate riforme politiche ed elettorali in Egitto e Arabia Saudita hanno bisogno di essere accompagnate e sostenute.
Insomma, far vincere la libertà, i diritti, la democrazia richiede a ciascuno assunzione di responsabilità. E guai se l’Europa rifiutasse la sfida e non cogliesse l’opportunità di un confronto paritario e costruttivo con gli Stati Uniti. E la funzione che sono chiamati a svolgere i progressisti, i riformisti, la sinistra è essenziale. Proprio nel momento in cui anche i conservatori riconoscono l’essenzialità della democrazia e dei diritti, sarebbe paradossale che la sinistra non fosse in prima fila a battersi per l’affermazione di quei diritti che sono la nostra stessa ragione di esistere.