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7 Aprile 2006

I conti incerti della fantasia

Autore: Francesco Giavazzi
Fonte: Corriere della Sera

Martedì, dopo una lunga campagna elettorale, cominceremo a fare i conti, a calcolare quanto davvero costano le promesse fatte in queste settimane, a chiederci se ci siano i soldi per onorare gli impegni che le due coalizioni hanno preso con i cittadini.

Il programma della Casa delle Libertà costa tra i 36 e i 101 miliardi di euro l’anno, cioè tra i 2,5 e i 7,5 punti di Pil. Quello dell’Unione costa tra i 20 e i 24 miliardi, cioè tra 1,4 e 1,7 punti di Pil l’anno.

Forbici tanto ampie si spiegano col fatto che i programmi sono reticenti su molti dettagli importanti: non conoscendoli è impossibile valutare con precisione i costi delle diverse misure. (I numeri che ho citato sono quelli stimati dagli economisti del sito lavoce.info ). L’Unione propone coperture per circa 7 miliardi di euro, un terzo del costo del suo programma. La Casa delle Libertà non dice dove troverà i soldi.


Questi numeri devono essere valutati nel contesto di conti pubblici che vanno facendosi via via più difficili, anche perché, dopo anni di tassi di interesse straordinariamente bassi, il costo del debito ricomincia a crescere.


Il rapporto tra debito pubblico e Pil era sceso, tra il 1995 e il 2004, di 18 punti (dati Banca d’Italia); nel 2005 è tornato a crescere. I dati della Trimestrale di cassa resi noti ieri indicano per quest’anno un fabbisogno del settore statale superiore al 4,5% del Pil. Poiché la crescita è stimata all’1,3 e l’inflazione di poco superiore al 2%, il rapporto debito-Pil crescerà ancora.


D’altronde non c’è di che sorprendersi: in questa legislatura le spese delle amministrazioni pubbliche sono cresciute di due punti in proporzione al Pil. Anche se escludiamo i trasferimenti alle famiglie (pensioni e interessi) e le spese per infrastrutture, la crescita della spesa rimane di un punto e mezzo.


Anziché spiegarci come finanzierà il suo programma, Giulio Tremonti prepara un’operazione di finanza straordinaria: spostare tutte le proprietà pubbliche (immobili, spiagge, caserme, eccetera) in una grande holding, e poi venderne le azioni ai risparmiatori.

E se questi non le volessero acquistare si può sempre imporre alle banche di sottoscriverne i titoli, come ha proposto ieri sul Corriere il professor Giuseppe Guarino.

Progetti che tradiscono una visione protezionista, coerente con la proposta di imporre dazi sui prodotti cinesi, ma lontana mille miglia dalla realtà di un’economia che fortunatamente è ormai parte dell’Europa.

Provate a imporre ad Alessandro Profumo, l’amministratore delegato di Unicredito, di acquistare a fermo quote della società Tremonti-Guarino.


Il sogno di abbattere il debito vendendo ai privati il patrimonio immobiliare dello Stato si è infranto contro un mercato che non ha gradito le operazioni di cartolarizzazione (che più volte, come nel caso di Scip2, hanno dovuto essere rifinanziate dalle banche) e un’amministrazione che si è giustamente opposta alla vendita ai privati di proprietà pubbliche, ad esempio l’isola veneziana di Poveglia che la Finanziaria 2006 aveva incluso tra le proprietà da cedere.


Intanto le privatizzazioni si sono fermate: avevano prodotto incassi per 17 miliardi di euro nel 2003, solo 4 lo scorso anno. Fra il ’96 e il 2001 erano stati di 11 miliardi l’anno. Ma in quest’ultimo quinquennio non si è trovato il tempo per vendere neppure il Poligrafico dello Stato.