Governo mutante. E non è un’imprecazione, ma un semplice dato di fatto, dopo le dimissioni di Bossi. E dopo quelle di Tremonti. E quelle di Scajola. E quelle, sempre a ritroso, di Ruggiero.
Come dire che nel corso del tempo, oltre al ministro leghista delle Riforme, il governo ha rispettivamente mutato i titolari dell’Economia, dell’Interno e degli Esteri, cioè di quelle amministrazioni che l’insostituibile manuale Cencelli valutava a cinque stelle. Come dire, in definitiva, che il secondo governo Berlusconi è un’entità che ha subìto tali e tante mutazioni da essere divenuto ormai un’altra «cosa», una creatura irriconoscibile, un’anomalia biologica. Ed è qui, precisamente, che la mitologia fantascientifica offre alla vita pubblica e istituzionale italiane l’inedita qualifica di mutante.
Si ripongano cioè nel cassetto la Costituzione (e il manuale Cencelli), e si dia corso alla consultazione degli albi X-Men della Marvel con i suoi mostri di derivazione genetica tipo pipistrelli, ragni, pinguini, coccodrilli, formiconi, lupi mannari e alieni vari. Cosa più è il governo se non un’entità fantastica nella sua continua trasformazione? Chi potrebbe orientarsi nelle più profonde e avventurose motivazioni che hanno portato all’entrata, allo spostamento e pure al ritorno di Scajola, Pisanu, Frattini, Mazzella, Siniscalco e del successore del Senatùr?
Anche nella Prima Repubblica, certo, si sostituivano i ministri. Ci fu un governo Andreotti, il sesto (1990-91), che ne cambiò cinque, tutti assieme. Ma anche in quel caso il governo semmai rafforzava la propria caratura politica. E infatti in quell’occasione Andreotti fece a meno della sinistra dc riassestando la compagine verso l’area moderata. Ma oggi beato chi ci capisce qualcosa.
Non solo, ma adesso la Lega si chiama fuori chiedendo un ministro. E nella Seconda Repubblica della semplificazione bipolare ecco che spunta fuori l’alleanza delle mani libere e la coalizione degli alleati traditori. Roba che la «collaborazione-competizione» tra socialisti e democristiani negli anni ottanta diventa un giochino innocente, se non altro perché allora i ministri restavano al loro posto. Oggi non più: si entra e si esce dal Consiglio dei ministri con massima tranquillità. Come in un cartone animato: salta Fenice e arriva Ciclope, si dimette Colosso e giura Wolwerine.
Il presidente Berlusconi ha l’aria di trovarsi del tutto a suo agio fra cloni, androidi e mutanti, alla guida di un’astronave-transformer che si rigenera rimpiazzando a sorpresa meccanismi, dispositivi, equipaggio. Oltretutto, almeno all’inizio, il Cavaliere rivendica «continuità». A rileggersi le collezione dei giornali, lo fece pure ai tempi della «separazione consensuale» con Ruggiero (gennaio 2002). «Convinta continuità europeista» per la precisione. S’è vista poi.
Come pure nega a oltranza le implicazioni politiche dei cambiamenti, cerca di sdrammatizzarne gli effetti sul quadro politico, cambia addirittura argomento. Memorabile, nel bel mezzo della crisi che portò alle dimissioni di Scajola (luglio 2002), la pretesa berlusconiana di porre all’ordine del giorno la questione – pure rilevante, chi lo nega – dello scongelamento del ghiacciaio del Monte Rosa.
Un anno dopo (luglio 2003) Scajola venne fatto rientrare. Al ministero per l’Attuazione del programma, poltrona (già di Pisanu) di cui s’era magnificata l’utilità, ma che era rimasta per dodici mesi vuota. In quell’occasione, una cena all’aperto, il Cavaliere ebbe anche modo di rassicurare il pubblico: «La coalizione resta quella che era». Sgarbi, che era stato appena licenziato, protestò vivacemente, prima di abbandonare il convivio. Anche il va e vieni dei sottosegretari di peso, in effetti (oltre a Sgarbi, Carlo Taormina, Stefano Stefani e il professor Vito Tanzi), conferma l’allegoria mutante.
Vero è che con i suoi 1.135 giorni il secondo governo Berlusconi ha battuto il record di longevità appartenente al primo governo Craxi, ma questo non attenua l’impressione che l’odierna struttura sia il risultato accidentale di eventi per la maggior parte sfuggiti di mano. Oppure che si sia adattata a quella sorta di legge della variabilità che da sempre guida il funzionamento della moda e della televisione.
In entrambi i casi, colpisce il fatto che, dopo le dimissioni di Tremonti, la Lega ne abbia richiesto la riassunzione al governo, magari in un altro dicastero, come se si fosse scherzato. Così come, al di là della tattica, significa certo qualcosa il rifiuto di Fini, di Follini e di diversi tecnici ad assumere la responsabilità dell’Economia. E lo stesso disimpegno più o meno mascherato di Bossi.
«Adesso – diceva ieri Bertinotti – non manca più nulla alla crisi formale». Ma sono proprio le forme che forse sono venute a mancare. Così, nel vuoto politico e nell’incertezza istituzionale, l’esecutivo è divenuto via via un’entità plastica e flessibile. L’idea della sua inviolabilità è tramontata a favore della sua costante manipolazione. E il richiamo anche lessicale all’ennesimo «rimpasto», espressione del vecchio «politichese», è oscurata dall’immagine del trapianto dei tessuti, del rimodellamento estetico, del lifting.
E sarà un eccesso di fantasia, un vano assillo, ma pare di cogliere un nesso tra la vocazione mutogena del governo e la disinvoltura con cui il suo presidente, allo scadere del decennio, si è «rifatto il tagliando». E sembra anche questo un cartoon, quando ormai è la politica del XXI secolo.