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17 Gennaio 2006

Gli affari dei furbetti della mafia

Autore: Francesco La Licata
Fonte: la Stampa
Anche se adesso è costretto ad andare per aule di giustizia col
passamontagna tipo «Mephisto», nuovo look da pentito, incrocio tra la maschera
di Diabolik e il cappuccio del capitano Ultimo, Francesco Campanella – ex
presidente del consiglio comunale di Villabate (epicentro mafioso del
Palermitano) – non ha smesso del tutto gli abiti e il linguaggio del giovane
rampante che sgomitava tra politica e affari senza rinunciare alla comoda
«comprensione» dei boss mafiosi. E perciò, quando lancia le sue implacabili
accuse al governatore della Sicilia, Totò Cuffaro, lo fa col linguaggio
appropriato del tecnico (un misto di consulente finanziario, esperto della
burocrazia e procacciatore di soldi ed affari) che vuole «sgravarsi la
coscienza», seppure dopo essere stato trovato con le mani nella
marmellata.
Affari e mafia
Francesco Campanella incarna il classico «rampantino di paese», esaltato
dalle prime sodisfazioni ottenute nella scalata sociale. Ed è facile capirlo,
dal momento che – a meno di trent’anni – poteva già vantare amicizie importanti
e l’onore di annoverare tra i propri testimoni di nozze leader del calibro di
Clemente Mastella e dello stesso Cuffaro. Senza contare il «giro» di soldi
assicurato dalla sinergia col boss del paese, Nino Mandalà, nella duplice veste
di capo della «famiglia» (gestita col l’ausilio del figlia, Nicola) e fondatore
di uno dei primi Club di Forza Italia.
Per questo è interessante il lungo (e a volte noioso) racconto che
Francesco Campanella snocciola da dietro il paravento dell’aula bunker di Santa
Verdiana, a Firenze: perché, al di là del valore probatorio che sarà giudicato
dal Tribunale (presidente Vittorio Alcamo), regala un quadretto niente male, dal
punto di vita socio-antropologico, di un microcosmo politico interamente
consegnato agli affari e alla mafia. Con intrecci, espedienti e personaggi che
rimandano alla mente una sorta di consorteria di «furbetti del quartierino
mafioso».
Campanella parla un italiano corretto ma imbastardito dal linguaggio che va
per la maggiore in un mondo dove tutti si credono capitani d’industria anche se
– come Campanella – gesticono un «Centro Tim» o, sempre come lui, cercano di
allargarsi «investendo» nelle sale Bingo e nelle scommesse simil-legalizzate,
«come vuole il mercato». E come investono? Ci pensa il mafioso: Mandalà «trova»
le concessioni e Campanella si occupa di reperire i fondi. Dove? Sottraendoli
agli ignari correntisti della Banca dov’è stato assunto, ovviamente su
raccomandazione politica. Il boss entra in società ma gestisce lui la cassa,
cioè i guadagni ottenuti con l’impiego degli «ammanchi» bancari. D’altra parte,
si può essere in società alla pari col boss?
La chiamano «Enterprise», come vuole la lingua dei «capitani furbetti», la
società che gestisce le sale Bingo. E, nel vocabolario di Campanella, il
dichiarato affare legato alla realizzazione di un faraonico centro commerciale a
Villabate, corredato di immancabili multisale e vari centri di divertimento,
viene abilmente celato sotto il miraggio di una promettente «Area produttiva».
Si pensa ad affari enormi (investimenti per 200 milioni di euro) anche per non
cedere alla depressione del milione e mezzo che manca ai correntisti della
banca. Soldi, cioè «piccioli», e sviluppo erano il vangelo dei «furbetti».
Perchè Campanella aveva un così gratificante seguito? Risponde ai pm (De Lucia,
Di Matteo e Prestipino): «Sono appassionato delle norme e trovavo ogni
soluzione». Che, tradotto, vuol dire che trovava il modo per «aggiustare» il
piano regolatore e far passare una «variante» destinata alla realizzazione del
Centro Commerciale. Non importa se, nel frattempo, cambiano le condizioni
politiche, la dc «squaglia» e si passa dal Ccd al Cdu, all’«Udeur di Cossiga», a
quello di Mastella e, infine, all’Udc. Tanto, i sindaci li fanno sempre
Campanella e i Mandalà.
Crediti mafiosi
Certo, nelle more i boss gli chiedono se per cortesia può falsificare il
documento che porterà Bernardo Provenzano ad operarsi a Marsiglia e allora il
buon Francesco è costretto a «inciuciare» col neosindaco Lorenzo Carandino
(eletto sempre col sistema della concertazione mafiosa) e rendere spendibile una
carta d’identità corredata da falsi bolli recuperati alla meno peggio nei locali
dell’anagrafe. Non sarà edificante, questa attività semiclandestina, ma serve ad
accumulare crediti mafiosi, anche perchè – nel frattempo – altra mafia era scesa
in campo per «caldeggiare» che al Centro commerciale fosse assegnata altra
allocazione, più gradita alla «famiglia» di Brancaccio. Troppi appetiti, spiega
Campanella. Totò Cuffaro, per esempio, non esitò a «mandarmi a dire che mi ero
bevuto il cervello se pensavo di poter fare affari di quella portata». «Se
vogliono il Centro – giura aver saputo Campanella dall’avv. Giovambattista Bruno
che riportava il contenuto di una cena con Cuffaro al “59” di Palermo – mi
devono dare almeno 5 miliardi».