2222
27 Febbraio 2006

Giuliano Amato: “Con l’Islam dialogo e fermezza in Italia urge una politica estera”

Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica

«Il mondo è sempre più sconvolto, e sarebbe importante che sapessimo esprimere posizioni forti e condivise, di fronte alle ripetute esplosioni di violenza che coinvolgono il sentimento religioso di milioni di persone». Anche Giuliano Amato, come Marcello Pera, scuote l´Europa. Ma a differenza del presidente del Senato, non invoca una «nuova crociata», ma una politica estera comune che eviti lo scontro di civiltà.

«Dovremmo evitare di dividerci su posizioni che diventano strumenti di propaganda elettorale – dice – perché mai come in questo caso sono in gioco i destini comuni. Non penso affatto che lo scontro di civiltà sia cominciato. Ma dobbiamo stare attenti a non assumere comportamenti che lo propiziano».

Presidente Amato, lei pensa che il manifesto di Pera vada in questa direzione?
«Io penso che abbia ragione chi sostiene che, in questo frangente, l´Europa si mostra spaventosamente debole e che, dopo gli episodi di violenza delle scorse settimane sulle vignette danesi, non possiamo limitarci a trascorrere le nostre giornate a chiedere scusa. Ma tutti noi sappiamo bene che la pubblicazione di quelle vignette risale a molti mesi fa, e che le manifestazioni di intolleranza nei paesi islamici sono state organizzate da chi, pur prendendo di mira l´Occidente, ha come vero bersaglio un avversario interno».

Quindi tutte quelle violenze, usando una formula molto italiana, sarebbero solo un «regolamento di conti» interno al mondo islamico?
«Mi sembra credibile l´ipotesi che in gioco ci sia la modernizzazione di una serie di paesi a maggioranza islamica. E proprio per questo penso che l´Europa, invece di indicare quel mondo come nemico, abbia il dovere di trovarvi interlocutori credibili con i quali dialogare. Se finora non ci siamo riusciti è perché l´Europa soffre non dell´assenza delle sue proclamate radici cristiane, ma di una politica estera determinata ed efficace, con la quale richiamare fra l´altro i governi dei paesi in cui vengono messi a repentaglio la vita e i beni dei cittadini europei».

Come ha scritto Eugenio Scalfari, il fondamentalismo si sconfigge non con una nuova crociata, ma con la politica.
«L´analisi di Scalfari è perfetta. Dal punto di vista religioso, se in Europa ci limitiamo a dire “noi siamo la cristianità”, come dobbiamo considerare quei nigeriani cristiani minacciati o uccisi dagli islamici? Sono nostri rappresentanti in quei paesi? O non è forse più vero che il cristianesimo, nonostante l´opinione di alcuni suoi troppo zelanti sostenitori, ha titolo per ritenersi davvero religione universale? Insomma, non stanchiamoci mai di ribadire che il mondo islamico non è un monolite».

Ma a forza di ribadire questo, senza fare altro di concreto, l´Europa sembra capace solo di balbettare formule vuote, mentre si assaltano consolati e ambasciate.
«È vero, anch´io sono esasperato dall´incapacità europea di reagire. Ma è anche vero che qualche giorno fa l´Economist ha giustamente osservato che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna sono stati i primi a dare una risposta flebile alle violenze anti-occidentali, perché sentono pesare sulle proprie coscienze la guerra in Iraq. E certo, è più difficile rivendicare rispetto per gli europei e i cristiani quando continuano a circolare immagini agghiaccianti sulle torture ad Abu Ghraib o sui pestaggi dei soldati britannici contro i ragazzini iracheni. Di fronte a tutto questo, non dobbiamo perdere la bussola della politica. C´è chi teme una guerra civile tra sciiti e sunniti in Iraq: pensiamo di affrontarla presentandoci a Bagdad con le bandiere cristiane?».

Nel suo ragionamento resta inevasa una domanda: esiste davvero un Islam moderato con il quale dialogare?
«Questo è il cuore del problema. Per trovare una risposta, dobbiamo usare una miscela di idealismo a medio termine e di realismo politico. È chiaro che di fronte alle violenze fisiche e alle bandiere tricolore bruciate devi cercare di rafforzare politicamente chi non cavalca queste derive intolleranti. Ma è altrettanto chiaro che, mentre fai questo, devi poter stringere all´angolo i governi di quei paesi, facendo loro capire con energia che sono loro i primi a non dover tollerare certe manifestazioni».

E l´Italia? Cosa può esprimere l´Italia, se non la maglietta anti-islamica dell´ex ministro delle Riforme?
«La priorità, nei paesi islamici in cui sono esposti i nostri concittadini, è tutelare la loro vita, i loro beni e l´ordine interno. È esattamente tutto ciò che un ministro come Calderoli non aveva presente».

Eppure, forse proprio a causa della minaccia fondamentalista, in questa campagna elettorale i valori religiosi, e quindi in modo speculare i principi della laicità, sono diventati un discrimine politico, non solo «tra» i poli, ma anche «nei» poli.
«Questo è verissimo. È anche il frutto di una legge elettorale infelice, che esalta le identità di ciascuno dentro ciascuna coalizione, e spinge le forze politiche a sfuggire al terreno comune anche quando questo si dimostra più necessario. Il paradigma di quello che sto dicendo è il confronto sui Pacs. Usciamo dai nominalismi: il testo del programma del centrosinistra prevede che si dovranno definire i diritti affettivi e patrimoniali dei soggetti che convivono in una unione di fatto. È vero, nel testo non si usa il termine Pacs. Ma mi permetto di far osservare a chi se ne duole che, in Francia, quegli istituti si chiamano Pacs, ma contemplano solo i diritti patrimoniali, mentre non includono quelli di natura affettiva, come per esempio l´assimilazione ai parenti per l´assistenza in ospedale, che il nostro programma invece prevede. E allora, cosa è meglio?».

Il centrosinistra si divide anche sul rapporto tra Stato laico e Chiesa, quasi come se fosse tornata d´attualità una «questione romana».
«Anche qui, guardiamo alla sostanza. La laicità dello Stato non è turbata dal fatto che la Chiesa entra con le sue posizioni nella sfera del dibattito pubblico. Se sappiamo usare il tema della laicità non per litigare, ma per capirci, allora leggiamo davvero l´ultima enciclica di Benedetto XVI, che colloca la religione nella società, non nella politica. Lo scrisse già splendidamente Maritain, 50 anni fa: “Una proibizione, pur ispirata alla legge naturale cristiana, dovrebbe essere evitata quando contrastasse con il codice etico di cittadini leali nei confronti della nazione e delle loro convinzioni morali”. Questa è la vera laicità. Sono gli stati islamici quelli nei quali la religione fissa non i principi, ma direttamente le prescrizioni legislative».

Il partito democratico non doveva servire anche a superare questi vecchi steccati culturali?
«Non c´è dubbio. Il futuro partito che nascerà avrà bisogno e dovrà far convivere le radici socialiste, quelle popolari e quelle del liberalsocialismo. Ma per favore, non usiamo Norberto Bobbio in nome di una laicità impermeabile alle ragioni della religione. Bobbio è uno dei grandi laici del ‘900 che scrisse che la ragione, a un certo punto, ti porta davanti al mistero».

Le resistenze culturali rimangono. C´è il partito democratico che galleggia nel limbo e c´è l´arco variegato della coalizione che pesa sul futuro.
«Al fondo, c´è un problema italiano: il rapporto difficile tra la fascia mediana e quella estrema dei due schieramenti. Eppure le coalizioni dovrebbero servire proprio a una contaminazione culturale. Dal mio punto di vista di vecchio socialista, la contaminazione significa proprio questo: fare proprie le domande dei massimalisti, e dar loro risposte riformiste. Per quanto ci riguarda, si tratterà di vedere se Bertinotti si metterà davvero sui questa strada. Per ora mi sembra stia facendo uno sforzo in più rispetto al passato».

La domanda cruciale, anche alla luce del caso Ferrando, è: reggerà o no?
«Me lo auguro. Certo ha problemi evidenti. I trozkisti sono ancora lì…».

Dall´altra parte, in compenso, ci sono i neo-fascisti.
«Infatti. L´altro ieri ero a Budapest per una riunione dei socialisti europei, e circolavano fotocopie dei giornali italiani che riferivano di questo giovane europarlamentare della Fiamma tricolore che ha dichiarato di non sapere se le camere a gas dei campi nazisti siano esistite o no. Questo succede negli stessi giorni in cui Irving è stato condannato a tre anni per aver scritto la stessa cosa su un libro. Solo che Irving è uno storico, mentre Romagnoli è un dirigente politico di una delle nostre coalizioni in corsa per il governo del Paese». Restiamo al centrosinistra.

Come si riflette questa sua valutazione non proprio rassicurante, sul dopo 9 aprile?
«Dopo le elezioni, comunque vadano, si dovrà necessariamente pensare a come ridurre l´attuale frammentazione politica, in una chiave molto più ampia di una pura e semplice fusione tra segreterie di partito».

Che significa, in concreto?
«Rilancio una vecchia idea, che mi è da sempre molto cara: il partito dell´Ulivo, o partito democratico come si chiamerà, potrà nascere solo da una grande Costituente, votata dai nostri elettori, alla quale affidare il compito di indicare moduli organizzativi e piattaforma politica del futuro partito unico. Per cominciare a dare un baricentro a tutto il centrosinistra, è una scelta essenziale. Altrimenti può saltare tutto».

La vede così nera?
«I nostri partiti sono attenti a non chiudersi troppo nei loro recinti. Ma anche Sant´Antonio ebbe qualche difficoltà a non chiudersi, davanti alle tentazioni del demonio. Così siamo noi, oggi, di fronte a questa scellerata legge elettorale. Stanze chiuse e piene di fumo – come si diceva negli Stati Uniti – in cui si decide l´elezione al posto degli elettori. Non è una bella democrazia. Noi riformisti abbiamo il dovere di aprire quelle stanze al futuro, e di lasciare il fumo al passato».