La madre di tutte le battaglie, per quel che
resta del Salotto Buono della finanza, si consumerà tra lunedì e
martedì della settimana prossima. Solo allora si conoscerà il nome del
vincitore di una delle più serrate lotte di potere del capitalismo
italiano di questi ultimi anni. Chi comanderà in Mediobanca? Cesare
Geronzi, il Grande Vecchio che si sente l’unico, degno erede di Enrico
Cuccia e garantisce una fitta rete di interessi consolidati degli
azionisti storici dell’Istituto? Oppure i manager Alberto Nagel e
Renato Pagliaro, che contano sull’appoggio di Unicredit e puntano a una
gestione della banca meno autoreferenziale e più ispirata alle logiche
di mercato? In apparenza, il duello sulla governance di Mediobanca è un
conflitto tra persone. In realtà, è anche e soprattutto una contesa tra
due modelli di democrazia economica, due idee diverse di capitalismo.
Il braccio di ferro si combatte in queste ore.
È molto più aspro di
quanto non dicano le frasi di rito dei protagonisti, o i comunicati
ufficiali degli uffici stampa. E non è affatto scontato che si concluda
con un accordo e una tempistica graditi allo stesso Geronzi. La sua
“road-map” è molto precisa, e si articola in due tappe. Prima tappa:
l’abbandono del sistema di gestione “duale” dell’Istituto (imperniato
su un consiglio di sorveglianza nel quale siedono i rappresentanti dei
soci e un consiglio di gestione nel quale comandano i manager) deve
essere approvato dal board convocato il 18 settembre. Seconda tappa: il
nuovo statuto che ripristina il sistema di governance “tradizionale”
(imperniato sulla presenza di un cda, di un presidente capo-azienda e
di un team di manager cui vengono affidate deleghe definite e ben
delimitate) deve essere formalizzato all’assemblea annuale degli
azionisti convocata il 28 ottobre. La vulgata prevalente vuole che
l’accordo sia ormai fatto. La verità è un’altra. L’intesa non è ancora
chiusa. E non è affatto sicuro che si riesca a chiudere entro il 18
settembre. La posta in gioco è troppo alta.
Mediobanca, “un unicum che
sta diventando un’anomalia” secondo la felice definizione di Alessandro
Profumo, Ceo di Unicredit, non può più permettersi passi falsi.
Nonostante l’appannamento di questi ultimi anni, resta uno snodo di
potere formidabile. Il passe-partout che apre le cassaforti di
Generali, Rcs, Telecom. Con “un uomo solo al comando” non regge più.
“Per questo – è la linea di alcuni soci che sostengono la battaglia di
Nagel e Pagliaro – Geronzi deve scendere a patti. Non può fare colpi di
mano né imposizioni. Deve negoziare, e deve cercare il consenso di
tutti”. Sulla carta, la sfida sembra impari. Geronzi è considerato
“l’uomo più potente d’Italia”. Un banchiere che ha scalato tutte le
vette della finanza italiana, e che nemmeno una richiesta di rinvio a
giudizio e una sentenza di condanna in primo grado riescono a far
vacillare. I manager, da soli, faticherebbero a contenere le mire
espansionistiche del superbanchiere romano, che passano proprio
attraverso la retromarcia sul duale. L’unico che può arginare Geronzi è
Profumo, forte di quel 9% che fa di Unicredit il primo azionista di
Mediobanca. Per questo i manager hanno cercato il suo appoggio. E
l’hanno ottenuto. All’insegna del principio secondo il quale “bisogna
ridefinire i confini tra le funzioni strategiche dei soci e le
competenze operative dei manager”, ma bisogna soprattutto
“salvaguardare l’autonomia di questi ultimi”, Profumo ha mandato il suo
presidente Dieter Rampl a spiegare a Geronzi che “Unicredit “non
accetterà forzature”, e che se alla fine non si troverà una soluzione
condivisa da tutti “Unicredit voterà no alla proposta di modifica della
governance”.
Forte di questa sponda, Nagel ha sottoposto la sua formula
di compromesso allo stesso Geronzi e al giurista Piergaetano Marchetti,
che sta lavorando a una nuova bozza di statuto, dopo la bocciatura di
un primo testo abbozzato prima dell’estate. È una formula che viene
definita “trasparente”, e che punta a introdurre un forte “criterio di
bilanciamento” nella suddivisione dei poteri interni alla banca. Una formula
molto diversa da quella iniziale, “cucita” da Marchetti su misura per
la figura di Geronzi. Una formula che a regime, se passasse,
configurerebbe un assetto interno mai conosciuto nella storia quasi
secolare di Mediobanca. Il superamento della governance “duale” non si
tradurrebbe in un ritorno puro e semplice al sistema “tradizionale”
(comunque rigidamente autocratico e fortemente gerarchizzato) che
Mediobanca ha conosciito per 50 anni. Viceversa, si potrebbe
addirittura arrivare a un comitato esecutivo in mano ai manager, cinque
dei quali entrerebbero addirittura in consiglio di amministrazione. Una
rivoluzione copernicana, per un tempio finanziario nel quale ha sempre
officiato un solo sommo sacerdote (prima Cuccia, poi Maranghi, ora
Geronzi) in nome e per conto di un “capitalismo di relazione”
inossidabile e inattaccabile.
Dopo una fase iniziale più “muscolare”
della contesa, con accuse esplicite alla dirigenza rea di non aver
garantito un corretto flusso informativo al comitato di sorveglianza e
con stoccate velenose all’indirizzo di Profumo, reo di “aver cambiato
idea d’incanto sulla governance in una domenica di luglio”, il
super-banchiere romano sembra ora più incline al negoziato. Sente la
pressione di Unicredit. Secondo le voci che circolano tra gli azionisti
dell’Istituto, “probabilmente anche il governatore della Banca d’Italia
Draghi gli ha fatto capire che è meglio non far saltare il tavolo”. E
poi c’è un ipotetico “lodo Maccanico” anche per Piazzetta Cuccia,
proposto dall’anziano ma saggio ex ministro delle Comunicazioni ed ex
presidente della stessa Mediobanca sulle pagine del Sole 24 Ore, al
quale Geronzi non deve essere insensibile. Sta di fatto che la
trattativa è in corso. Ma una cosa è certa: Nagel e Pagliaro non
vogliono trattare con la pistola alla tempia. Questa partita è troppo
delicata, e non si gioca solo in un mese. “E’ fatta di tattica e di
resistenza”, come riassume un interlocutore autorevole molto addentro
alle vicende dell’Istituto. “Noi – è la linea dei manager, riferita da
un azionista in contatto con le due parti – abbiamo interesse a
raggiungere un sistema di governance chiara e comprensibile, dentro e
fuori della banca.
Se si può raggiungere un accordo entro il 18
settembre, tanto meglio. In caso contrario, non si firma. Nessuno di
noi ha interesse ad accelerare i tempi a tutti i costi, anche al prezzo
di accordarsi su un pasticcio. Meno che mai abbiamo interesse a tenere
la banca sotto una tenda d’ossigeno per sei mesi”. Da questo punto di
vista, la stessa ipotesi di un “congelamento” del quadro attuale è un
rischio. Come ha spiegato uno dei soci nelle conversazioni riservate di
questi giorni, “una Mediobanca non gestita non conviene a nessuno e non
va da nessuna parte, perché vende servizi finanziari, non scarpe, e
così i dirigenti non sanno a chi rispondere”. Per questo serve
“un’intesa vera, seria, che dia tranquillità e certezze a tutti i
soggetti coinvolti”. Non sarà facile. Ma secondo i ben informati, i
manager sono pronti allo show-down. E non si accontenterebbero della
promessa di lasciare a Nagel la poltrona di amministratore delegato,
anche nel nuovo assetto di governance.
“Questo lo diamo per scontato”,
dicono fonti vicine a Unicredit. Il punto cruciale, che lo stesso Nagel
ha ribadito a Geronzi, è un altro: integrità della squadra e chiarezza
sulle modalità operative. Dunque deleghe, organi interni, materie e
rappresentanze in comitato esecutivo, dove tutte queste “pratiche”
devono obbligatoriamente transitare. Se queste richieste vengono
recepite, bene. Altrimenti noi se ne fa nulla. Non sappiamo quale sia
stata e quale sarà la risposta del Grande Vecchio. Ma sappiamo che tra
lunedì e martedì tutto sarà chiaro. E sappiamo comunque che questa è
solo la prima battaglia di una guerra di portata molto più ampia. Una
guerra che riguarda la finanza: dal destino di magnifiche prede come
Generali e Telecom alla Yalta europea tra i francesi alla Bollorè e i
tedeschi di Allianz e Commerzbank. Ma è una guerra che incrocia anche
la politica: dal controllo di una “bocca di fuoco” come il Corriere
della Sera alla cooptazione di pezzi emergenti di establishment, che
attraverso il sostegno al piano di restaurazione di Geronzi per
Mediobanca (come attraverso il sostegno al Piano Fenice di Passera per
Alitalia) cercano di accreditarsi presso il nuovo potere
berlusconian-tremontiano. Un establishment debole e ricattato, pronto a
scambiare piccole prebende con un governo che, per sentirsi finalmente
forte e legittimato, gli elargisce grandi favori. Pur di trasformare
l’ex “salotto buono” nella sua ambita, e finalmente conquistata,
costituency elettorale.