Silvio Berlusconi ha, all’apparenza, molti buoni motivi per non dare retta a chi sostiene che, in fondo, è anche nel suo interesse andare quanto prima alle urne. Il primo, e il più forte, è che, a votare subito, la sconfitta sua e della Casa delle Libertà è pressoché certa, tra un anno forse no: il (presunto) tacchino può anche essere costretto ad adeguarsi a un anticipo delle festività natalizie, ma nessuno può ragionevolmente chiedergli di reclamarlo. E gli alleati (i postdemocristiani dell’Udc più ancora di An) sicuramente se ne dorranno, ed esprimeranno il loro disappunto: ma, non potendo né costringerlo al gran passo né rompere, se ne dovranno fare, volenti o no, una ragione. E’ probabile, anzi, al momento è quasi certo, che saranno questa logica e questi intendimenti a prevalere.E continuare a ragionare sull’opportunità o meno di elezioni anticipate potrebbe quindi sembrare anche un esercizio accademico, e un po’ ozioso. Ma non è così. E non solo per i (pesanti) interrogativi sollevati già ora dalla prospettiva di una campagna elettorale lunga un anno, e di un presidente del Consiglio che dovremmo pensare sempre in cerca dell’arma segreta per rovesciare le sorti del conflitto. C’è infatti un problema enorme che riguarda il centrodestra e, con il centrodestra, le sorti stesse del bipolarismo italiano; un problema al quale il primo a non potersi sottrarre è, o dovrebbe essere, proprio Berlusconi. Perché Berlusconi questo centrodestra, nel ’94, lo ha letteralmente inventato; e sul nostro bipolarismo ha sin qui impresso un segno fortissimo.
Se una cosa chiara la ha detta, il voto regionale, è che il centrodestra così come lo abbiamo sin qui conosciuto, con Berlusconi e il berlusconismo a far da traino e da collante a interessi, ambizioni, culture e storie politiche di per sé inconciliabili, sembra non esserci più, e comunque attraversa una crisi più profonda di quanto dicano gli stessi (pessimi) risultati elettorali. Immaginarne una resurrezione in extremis affidata a un improbabile rilancio del carisma del Capo è un po’ ingenuo, un po’ avventuroso. C’è, invece, eccome, un elettorato di centrodestra tuttora assai forte, rappresentato solo in parte dai suoi partiti: una forza che non è condannata a tornare ad essere eterna minoranza né a implodere, ma a condizione di cambiare in profondità, di uscire da un permanente stato di eccezione, di guadagnare finalmente, come tutti i suoi partner europei, l’unica identità possibile, la «normalità» dei moderati. Perché è solo a questa condizione, in realtà, che anche una probabile sconfitta non si tradurrebbe in un tracollo, e in un colpo mortale per un bipolarismo anch’esso destinato a incivilirsi o a perire.
Si può non condividere nulla di Berlusconi. Ma di certo è stato Berlusconi a far emergere questo mondo, dandogli leadership, ma anche forma e, perché no, orgoglio. È verso questo mondo che Berlusconi ha oggi una fortissima responsabilità politica. Se è un leader (e i leader veri si riconoscono nei momenti difficili, quando tutto sembra crollare intorno a loro), è ora che deve dimostrarlo. Può darsi che qualcuno tra gli alleati gli suggerisca il fatidico passo indietro nella speranza di vederlo precipitare (da solo) in un burrone. Ma queste sono minuzie. È un difficilissimo passaggio di fase che Berlusconi è chiamato, se sa e può, a governare. Non più da solo, certo, ma altrettanto certamente da protagonista. E la prima condizione per farlo è forse proprio prendere atto che un tempo è finito, e non si può prolungarlo artificialmente, dal chiuso di un bunker.