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4 Giugno 2006

Fuga dalla colpa

Autore: Barbara Spinelli
Fonte: La Stampa

Tre volte difficile è stato per Benedetto XVI parlare a Auschwitz e ricordarne le «ombre tenebrose». Difficile perché è andato lì come capo della Chiesa, e la Chiesa è appena agli inizi di una meditazione profonda sul proprio rapporto col male che nel ‘900 s’è abbattuto sugli ebrei ma ha consumato anche lei, più ancora forse di quanto abbia arso l’ebraismo. Difficile perché si è umilmente presentato come «uomo tedesco», non come pontefice. Difficile infine perché davanti ai forni doveva prender la parola, e chiunque abbia pensato o veduto Auschwitz sa che la parola in quei luoghi si spezza. Che solo il frantumato poetare di un Celan può forse evocare i campi: solo gli occhi divenuti ciechi, solo la consapevolezza che «anche se venisse un uomo al mondo, oggi, con la barba di luce dei patriarchi, dovrebbe – se di questo tempo parlasse – solo balbettare e balbettare: continuamente, continuamente». Giacché Auschwitz è sempre di nuovo raccontato e di nuovo mancato, come accade alla morte che non s’afferra. Queste tre difficoltà Benedetto XVI le ha volutamente scelte, come sue strade strette. Non potendo balbettare ha interrogato non solo gli uomini ma soprattutto Dio, e risposte non ne ha date.


C’è in primo luogo la difficoltà della Chiesa, il male che dopo Auschwitz segretamente la consuma. È vero, il Papa non ha additato le colpe dei cristiani, delle loro istituzioni. Non ha ripreso le parole di Giovanni Paolo II sull’antigiudaismo sfociato in antisemitismo. Ma l’accenno ripetuto al silenzio di Dio è già incespicante sgomento che echeggia Celan. Di silenzio di Dio hanno parlato Wiesel negli Anni 60, Hans Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz, 2005), e Emmanuel Lévinas che pure criticò la tendenza a «antropomorfizzare il cielo», e ad attribuire a Dio colpe umane (La difficile libertà, 2004). Nel discorso cristiano generalmente il tema è assente: il male rientra in una narrazione di salvezza, la discesa è in realtà una salita, la storia tende a dissolvere escatologicamente dolori e ingiustizie in un trasfigurante bene finale. Non così quando Ratzinger parla del silenzio di Dio. A Giobbe egli sembra accostarsi, ai salmi. A tal punto «le parole vengono meno» che «in fondo può restare soltanto uno sbigottito silenzio – un silenzio che è un interiore grido verso Dio: Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?». Non c’è risposta consolante al domandare. La questione resta aperta: al silenzio di Dio, egli risponde col suo taciturno sbigottimento. C’è poi la difficoltà dell’uomo tedesco. È chiaro che la persona Ratzinger tiene conto di quel che nel dopoguerra dissero le Chiese sulla Germania e l’Europa senza più radici cristiane. È chiaro che lo influenza la discussione dolorosa, aspra, che da tre generazioni divide intellettuali, sacerdoti, politici tedeschi.


«Un gruppo di criminali raggiunse il potere mediante promesse bugiarde, in nome di prospettive di grandezza, di ricupero dell’onore della nazione e della sua rilevanza, con previsioni di benessere e anche con la forza del terrore e dell’intimidazione, cosicché il nostro popolo poté essere usato ed abusato come strumento della loro smania di distruzione e di dominio», ha detto il 28 maggio a Auschwitz, e non è cedere alla vulgata antifascista e al politicamente corretto rilevare che c’è qualcosa di molto angusto, antiquato, confortante perché scagionatore, in simili interpretazioni. Negli Anni 30 e 40 la Chiesa aveva precomprensioni (così il Papa chiama i pregiudizi, giustificandoli) che le impedivano di vedere e dire l’orrore: è vero, e proprio per questo mancò tragicamente di respiro profetico. Lo storico Arno Lustiger, cugino del cardinale Lustiger, è stupefatto dalla frase sul gruppo di criminali: «Hitler è stato pur sempre eletto dal popolo tedesco e i nazisti non sono caduti dal cielo» (Frankfurter Allgemeine, 1 giugno).


Le difficoltà dell’uomo tedesco non cessano. Cominciarono subito dopo il ’45, quando Karl Jaspers descrisse le colpe che gravavano sulla Germania e parlò della colpa metafisica, commessa da chi non si macchiò di reato ma peccò per omissione, non solidarizzando con i perseguitati: ogni attribuzione delle colpe a forze esterne è una fuga del tedesco da sé, dalla propria responsabilità. Jaspers fu criticato da quasi tutti: da Ernst Robert Curtius a destra, da Ernst Bloch e György Lukacs a sinistra. Era inaccettabile la sua denuncia di una rottura nelle narrative storiche conservatrici o socialiste. Jaspers avversava l’idea d’una colpa collettiva, così come l’avversavano i giudici di Norimberga. Ma la colpa collettiva era un incubo così vicino, e verosimile: perché altrimenti gli alleati avevano annientato 131 città tedesche (i civili uccisi furono 600.000)? E Jaspers non aveva detto che ogni sopravvissuto era colpevole? A destra come a sinistra si preferì accusare potenze e idee impersonali che discolpavano il popolo: idee come il relativismo, il nichilismo, il capitalismo. O potenze come Satana. Ma se la colpa collettiva angustiava i tedeschi è perché essi stessi, nel loro intimo, pensavano in fondo di portarne la macchia.


Ratzinger uomo tedesco è figlio di questo dibattito postbellico e non esita a schierarsi accanto a chi prosciolse la Germania e i tedeschi, come se nel frattempo non fossero apparsi studi sull’adesione di tutto un popolo al nazismo. Non per questo nasconde il valore di chi seppe resistere, come Maximilian Kolbe. Né occulta i peccati umani, anche se la loro evocazione sembra senza rapporto con Auschwitz: «Il potere che Dio ha depositato nei cuori» può esser «coperto e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo». Il grido davanti a Dio dobbiamo «rivolgerlo allo stesso nostro cuore».


Non sono additati solo i peccati umani: una Chiesa politicizzata, opportunista, può sempre di nuovo invischiarsi nella colpa. Benedetto XVI si guarda dal parlare del passato ma descrive il presente polacco, europeo, indirettamente anche italiano: «Dai sacerdoti i fedeli attendono soltanto una cosa: che siano degli specialisti nel promuovere l’incontro dell’uomo con Dio. Al sacerdote non si chiede di essere esperto in economia, in edilizia o in politica. Da lui ci si attende che sia esperto nella vita spirituale» (incontro con il clero a Varsavia, 25 maggio). Sono parole dure, che valgono per l’oggi. Potrebbero applicarsi agli Anni 30-40.


C’è infine la difficoltà di dire il terribile accaduto nei Lager: di riempire i silenzi senza tuttavia rinunciare a far parlare proprio il silenzio. Il Papa a Auschwitz è stato capace di questo silenzio parlante. Silenzio davanti alle lapidi che ricordano l’uccisione degli ebrei, e poi anche dei sinti e rom, dei russi, degli italiani, e di tanti tedeschi. C’è stato molto taciturno concentrarsi in questa visita.


Il silenzio spesso è più vicino al vero del proferir parole: soprattutto quando il vero è ineffabile e le dichiarazioni perentorie. Per mescolare il dire e il tacere occorre che le parole siano scompaginate, disaggregate, proprio come fece Jaspers nel ’46 quando elencò quattro colpe: la colpa criminale, politica, morale, metafisica. La prima era individuale: chi commise crimini era imputabile, personalmente, di fronte a tribunali. La colpa politica era di chi accettò genocidio e guerra, e il giudizio spettava ai vincitori: i cittadini non erano collettivamente colpevoli di quel che aveva fatto il regime, ma erano tutti assieme responsabili. La colpa morale non è giudicabile dai tribunali ma dalla coscienza del singolo, consistendo in mancati interventi per evitare il male. Infine la colpa metafisica, cui i tedeschi danno oggi il nome di Haftung, responsabilità: ogni sopravvissuto è in fondo colpevole, non avendo solidarizzato con l’umanità. Nei due ultimi casi non si è colpevoli ma si è responsabili di fronte a se stessi: per sempre. Le tre strade strette del Papa hanno tutte la colpa come stella polare, anche se la colpa in fin dei conti non è ammessa: colpa del capo della Chiesa, dell’uomo tedesco, dell’individuo che cerca se stesso nello sbigottimento del silenzio. È così che siamo di nuovo condotti a Jaspers, a quel che disse sulla propria stessa colpa metafisica: «Noi sopravvissuti non abbiamo saputo cercare la morte. Quando i nostri amici ebrei son stati deportati non siamo scesi in strada, non abbiamo gridato sino a farci annientare. Abbiamo preferito restare in vita accampando un motivo debole, anche se giusto: la nostra morte non sarebbe stata d’aiuto. Il fatto che viviamo è la nostra colpa. Sappiamo davanti a Dio quello che profondamente ci umilia. Se non ho rischiato la vita per scongiurare l’altrui assassinio, se sono stato a guardare, mi sento colpevole in un modo che non è comprensibile con adeguati criteri giuridici, politici o morali» (Karl Jaspers, Die Schuldfrage, 1946, in italiano La questione della colpa, 1996). Tutto questo non è conformismo storiografico. È anima che si lacera, e Ratzinger le si fa incontro con la modestia del suo dirsi «uomo tedesco» ma non fa propria la lacerazione, resta diplomatico, e in questo non è l’uomo trafitto di Celan, «con la barba di luce dei patriarchi».


Ratzinger è erede della Germania che cercò di sciogliere il peccato nazionale nelle più vaste colpe – nichiliste – dell’Occidente. Nella polemica che Jaspers ebbe nel 1949 con Curtius, grande studioso di letteratura romanza, sarebbe stato probabilmente dalla parte di Curtius. Questi era conservatore antinazista come Jaspers, ma s’adirò tremendamente quando il filosofo osò sfatare l’idolo-Goethe: dopo Auschwitz non era più possibile l’adesione goethiana alle vitali forze della natura, disse Jaspers e divenne un reietto in Germania.


E tuttavia non è a Goethe che il Papa fa appello, bensì a Giobbe. Tra l’amato poeta e il XXI secolo ci fu una lesione della storia, compresa la storia della salvezza, che il Pontefice non si sente di cancellare. Una lesione che spezza le teodicee di ieri, lasciandoci muti, esterrefatti. Da questo punto di vista sì, Hitler volle uccidere anche il cristianesimo colpendo l’ebraismo. Lo ha affermato Benedetto XVI, senza autentico senso del tragico. Prima di lui lo aveva tragicamente detto, già nel 1834, l’ebreo miscredente Henrich Heine, nella Storia della Religione e della Filosofia in Germania: «Il cristianesimo – e questo è il suo merito più bello – ha addolcito un poco la brutale bellicosità germanica; tuttavia non ha potuto distruggerla, e quando una volta il talismano addomesticatore, la croce, si romperà, allora si scatenerà nuovamente la ferocia degli antichi guerrieri, la folle furia bellicosa, della quale i poeti nordici cantano e dicono tante cose. Quel talismano è tarlato, e verrà il giorno in cui andrà miseramente in frantumi».