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22 Marzo 2006

Flessibile ma non per sempre

Autore: Tito Boeri
Fonte: La Stampa


Tito Boeri, La Stampa, 22-03-2006


I problemi del nostro mercato del lavoro sono rimasti ai margini del primo confronto televisivo fra i due candidati premier. Ma alla luce dei dati sulle forze lavoro resi pubblici ieri dall’Istat e delle notizie che giungono dalla Francia, è presumibile che di occupazione, disoccupazione e precariato si parlerà nel prossimo confronto e nei dibattiti che lo precederanno. Bene perché c’è bisogno di cambiare rotta agendo in anticipo, per evitare che gli stessi tensioni si manifestino anche da noi.


L’ultima indagine sulle forze lavoro ci affida tre messaggi importanti.


Primo, la spinta alla crescita dell’occupazione proveniente dalla cosiddetta flessibilità al margine (la possibilità per le imprese di assumere nuovi lavoratori su contratti che garantiscono all’impresa molta più flessibilità nella gestione del personale) sembra essersi esaurita. La «luna di miele» in cui le imprese hanno voluto costruirsi, indipendentemente dall’andamento del fatturato, uno stock di posti di lavoro flessibili di cui disporre in caso di variazioni della domanda, è finita. Se l’occupazione non è calata nel 2005 è solo per l’effetto della regolarizzazione degli immigrati, un mero fatto statistico. Questi lavoratori erano già da noi, ma non venivano rilevati dalle indagini sulle forze lavoro. Senza l’effetto della regolarizzazione i posti di lavoro sarebbero diminuiti, coerentemente coi dati diffusi qualche settimana fa sempre dall’Istat sulle ore lavorate. Non a caso, dopo molti anni il tasso di occupazione è tornato a diminuire e la disoccupazione a salire.


Secondo messaggio, il Mezzogiorno rimane sempre più al palo. Diminuiscono sia gli occupati che le forze lavoro e non di poco (- 1,5 per cento), il che significa probabilmente più scoraggiamento e più emigrazione dal Sud al Nord. In ogni caso, il divario Nord-Sud nelle condizioni del mercato del lavoro si accentua ulteriormente.


Terzo messaggio, continua la crescita della quota dei contratti a tempo determinato sul totale dei lavoratori dipendenti, ormai vicina al 13 per cento rispetto al 12 per cento di un anno fa, più che in Francia e in Germania. Insomma ai vecchi dualismi del nostro mercato del lavoro (il divario Nord-Sud) si affianca sempre più il nuovo dualismo delle asimmetrie fra contratti «rigidi» e contratti «flessibili».


La protesta di questi giorni in Francia ha un forte connotato ideologico. Ma sarebbe sbagliato ignorare le ragioni di una ribellione contro le asimmetrie di trattamento che vengono riservate in Francia, come in Italia, a chi entra oggi nel mercato del lavoro (a tutte le età) rispetto a chi è già occupato con un contratto standard. I giovani nelle piazze di Parigi vestivano con sacchi di immondizia a significare «lavoratori di serie B». Questa richiesta di parità di trattamento non può essere ignorata. Vero che da noi le asimmetrie sono meno stridenti che in Francia (dove recentemente si sono ulteriormente rafforzate le tutele dell’impiego dei lavoratori con contratti regolari e chi viene assunto coi nuovi contratti vive per due anni al di fuori dello Statuto dei Lavori), ma anche vero che ne abbiamo di più di contratti «precari».


Preoccupa, da questo punto di vista, la pochezza delle proposte della Casa della Libertà, che sembra orientata solo a continuare nella strategia della creazione di nuovi contratti flessibili. Bene che presti attenzione al fatto che, prima o poi, si potrebbe raggiungere un livello di saturazione. Non c’è gradualismo in questi processi. La Francia aveva introdotto tre mesi fa un contratto flessibile, senza suscitare alcuna protesta. Poi di colpo è scoccata la scintilla.


Le proposte dell’Unione sono più articolate. Prevedono di ridurre le asimmetrie fra parasubordinato e contratti regolari armonizzando le aliquote previdenziali. Giusto perché oggi un lavoratore che entra dalla porta dei «contratti a progetto» e non riesce a passare al segmento regolare rischia di arrivare a 65 anni, con 40 anni di lavoro, ad una pensione di meno di 5000 euro. La proposta dell’Ulivo riguarda, peraltro, i soli co.pro.co dato che i lavoratori con contratti a tempo determinato pagano già gli stessi contributi previdenziali di quelli a tempo indeterminato. Ma c’è un problema anche di livelli retributivi e di passaggio dai contratti flessibili ai contratti regolari. Bisognerebbe istituire in Italia un salario minimo per affrontare il primo problema, dato che questi lavori sfuggono completamente alle maglie della contrattazione collettiva. Quanto al secondo problema, bisogna concepire un percorso di ingresso, una specie di «cursus honorum» che porti in tempi non biblici il lavoratore flessibile ad avere un lavoro senza, a priori, limiti di durata. E’ il modo migliore per incentivare il lavoratore e l’impresa a investire in capitale umano, che rappresenta la migliore tutela contro il rischio di disoccupazione. Ma perché la flessibilità sia inquadrata in un percorso di ingresso nel lavoro regolare, anziché come un binario separato, bisogna rendere più graduale l’acquisizione di tutele. Altrimenti le imprese saranno fortemente scoraggiate dal trasformare contratti flessibili in contratti rigidi. Come temono i precari francesi, bisogna evitare che le imprese dopo due anni trascorsi senza tutele, quando stai per passare a un contratto permanente, ti dicano «grazie e arrivederci».