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17 Settembre 2004

Federalismo ideologico

Autore: Giulio Anselmi
Fonte: la Repubblica

I LEGHISTI sostengono che il federalismo è “un sogno”. Certamente non fa i conti con la realtà: una riforma così radicale dell´organizzazione del Paese a livello nazionale, regionale e locale può essere effettuata solo in tempi di vacche grasse. Ma, quanto alle vacche, cioè alla produzione di ricchezza che si traduce in stabilità finanziaria, c´è poco da mungere. Le regioni ne sono convinte, tanto che la Conferenza dei presidenti s´è riunita in sessione straordinaria e ha chiesto al Governo una sospensione del voto e un incontro immediato per discutere questa “rivoluzione” allarmante.


La preoccupazione dilaga. Perfino al ministero per gli Affari regionali, a mezza voce, non nascondono le perplessità: la legge che porta il nome del ministro La Loggia prevede che si decentri “a costo zero”, ma anche la prima linea chiamata ad applicarla definisce l´obiettivo un´utopia.
Così il federalismo italiano, ancor più nella sua versione dura definita “devolution”, appare un gioco della politica, una prova del celodurismo leghista a cui il centrodestra non può opporsi perché ne va dell´identità dei bossiani e della loro fedeltà alla coalizione. Il centrosinistra, da parte sua, è imbarazzato perché il suo exploit federalista, fatto in coda di legislatura e a colpi di maggioranza per strizzare l´occhio alla Lega o almeno a una parte del suo elettorato, è uno dei peggiori guazzabugli legislativi della storia repubblicana. Per cui fa un´opposizione di facciata e spera nel referendum confermativo previsto per le riforme costituzionali: la saggezza popolare dovrebbe riuscire lì dove la politica fallisce. Altro che avvicinare alla gente le istituzioni e ridurre i loro costi, ragioni fondanti del decentrare!
Mentre l´attenzione romana è puntata soprattutto sul capitolo dall´immediato effetto politico (il pastrocchio del premierato forte e della corrispettiva riduzione dei poteri del presidente della Repubblica, il ridimensionamento del ruolo della Camera e la parallela crescita del Senato, organo-cerniera con le Regioni), l´allarme sui costi resta così affidato all´attenzione di pochi intellettuali, come Giovanni Sartori, a cui il ministro delle Riforme replica con considerazioni generiche sul bello del federalismo secondo James Buchanan e Andrè Breton. Ma qui non si tratta di fare confronti teorici: occorre valutare la praticabilità della riforma federale, quanto costa e, prima ancora, quanto serve a un paese che deve definire la sua collocazione strategica sullo scenario internazionale. Il federalismo, oggi, è una priorità? Mentre l´Italia non sa dove inseguire un suo modello di sviluppo, addentrarsi nelle pagine di Carlo Cattaneo ha un sapore un po´ retrò, comprensibilmente caro alla cultura valligiana della Lega che, ossessionata dai campanili, si guarda bene dal coniugare localismo e globalizzazione. Non è un caso che i primi a manifestare perplessità siano stati gli imprenditori, rifiutando, in nome dell´efficienza, il federalismo ideologico. Non si tratta solo di Montezemolo, che ha fatto del rapporto costi-benefici il metro di misura delle riforme già nel suo discorso d´insediamento. Sono moltissimi gli industriali del Nordest che, come ha scritto in un bell´articolo Giorgio Lago, sono convinti che sia «cambiato il calendario dei problemi, che sono sempre più nazionali e oltre». Edoardo Garrone, presidente del comitato di Confindustria per l´impatto del federalismo sulle imprese, chiede «certezze» per poter operare e investire, non «venti piccole patrie che riproducono e amplificano costi e limiti dello Stato centrale».
Il passato fa squagliare le illusioni. Nel ´70 si votò per le Regioni e si disse che i nuovi enti sarebbero stati fatti funzionare dalla vecchia burocrazia e che le Province, ormai inutili, sarebbero state abolite. Invece sono aumentate, e agli impiegati statali si sono sovrapposti quelli regionali: complessivamente una cattiva prova con un aggravio di bilancio. Ci si preoccupa giustamente dell´ambiguo tentativo leghista di attribuire competenza esclusiva alle Regioni in materia di sanità, istruzione e polizia locale e si cerca di comprimere i rischi futuri entro la gabbia dell´interesse nazionale e di una qualche priorità per il governo. Ma al ministero una decina di funzionari è fermo ancora al primo tempo del film di cui discutiamo i titoli di coda: d´intesa col ministero dell´Economia e con la Ragioneria generale, stanno “mappando” le funzioni già oggi, in base alla Costituzione, di esclusiva competenza regionale (agricoltura, trasporti locali, miniere, commercio, turismo, ecc.) per capire quali sono i costi che tuttora sopporta l´amministrazione centrale ed effettuare i trasferimenti di risorse e personale. Anche qui non mancano i dubbi: le esigenze di coordinamento hanno fatto risorgere, sotto altro nome, il ministero per l´Agricoltura e non ha senso stare sul mercato del turismo mondiale con venti micropubblicità, magari supportate, come la Campania a New York, da “ambasciate” all´estero.
È vero disastro quando si passa alle materie dove la legislazione Stato-regioni è “concorrente” (dal confine, cioè, ancora indefinito), come opere pubbliche, energia, ricerca scientifica, professioni: la riforma del titolo V, operata dal centrosinistra, non ha saputo tracciare distinzioni e neppure responsabilizzare l´ente locale per la spesa, ha prodotto confusione e immobilismo. Il risultato sono conflitti di ogni genere e trecento provvedimenti impugnati davanti alla Corte costituzionale. Effettivamente è necessario fare chiarezza e il centrodestra ne approfitta per contrabbandare alcuni degli emendamenti in discussione alla Camera come un rimedio obbligato agli errori dei predecessori. «Restare in mezzo al guado, facendo finta che nulla sia successo non serve», ha scritto Gaetano Quagliarello. I costi non sono però una variabile indipendente. Il dipartimento economico di palazzo Chigi ha valutato che il trasferimento delle competenze dal centro alla periferia comporterebbe un aumento della spesa pubblica, evidentemente insostenibile, del 40%. La voce. info parla di 50 miliardi di euro. Ma sono numeri gonfi di variabili, come tutto il capitolo, di là da venire, del federalismo fiscale sul quale lavora una titolata Alta commissione. L´unica cosa a cui nessuno crede è che, a federalismo compiuto, gli italiani pagheranno meno tasse. Le Regioni si sono fatte una brutta fama. Altro che efficienza e trasparenza connaturate al federalismo, il fideismo leghista è travolto da una marea di assunzioni clientelari e di trasferte esotiche “per rappresentanza”, il patto di stabilità sulla sanità è stato perforato da giunte di ogni colore, da ultimo, c´è stata perfino l´invenzione, in Sicilia e Toscana, di “assessori supplenti”.
Voci ispirate dal buonsenso hanno parlato di “stralcio”, cioè di accantonamento, qualcuno ipotizza di rinviare tutto a un´assemblea costituente. Ma esploderebbe una bomba politica. Così si procede, tra contraddizioni che, conosciute, dovrebbero risvegliare dai loro sogni anche i più entusiasti frequentatori di Pontida. L´unica consolazione, molto relativa, è che tra doppia lettura parlamentare, referendum e attuazione pratica delle leggi passerà molto tempo. E col tempo… Al ministero delle Regioni qualcuno sorride con cinismo burocratico. «Dal ´47, anno della Costituzione, alla prima elezione regionale sono passati 23 anni, dal ´70 alla riforma del titolo V altri 31. Sono cose complicate. Ci vuole pazienza…».