16 Novembre 2005
Federalismo all’italiana
Autore: Luigi La Spina
Fonte: La Stampa
IL libro più famoso di uno dei più noti e discussi filosofi contemporanei, Ronald Dworkin, professore di Oxford, si chiama «I diritti presi sul serio».
Prendendo a prestito questo bel titolo, si potrebbe dire che i giudici della Corte Costituzionale «hanno preso sul serio» il federalismo italiano e ne hanno tratto le debite conseguenze.
Ecco la sostanziale motivazione della sentenza che, proprio alla vigilia del varo definitivo della nuova riforma sulla cosiddetta «devolution» e in vista dell’approvazione parlamentare della finanziaria, non solo ha riacceso la polemica tra gli schieramenti su queste due leggi, ma ha denunciato soprattutto l’incoerenza e la strumentalità con la quale la nostra classe politica ha affrontato questioni fondamentali della nostra vita pubblica, a cominciare dalla struttura del nostro Stato.
Al di là degli effetti concreti di questo verdetto della Consulta, probabilmente non rilevanti, la decisione segnala, con l’autorevolezza del supremo ordine di garanzia della Repubblica, l’urgenza di una profonda riflessione su uno dei più gravi pasticci che il Parlamento italiano, in tutta la sua storia, ha compiuto e sta compiendo.
Da quando il federalismo è diventato la parola d’ordine, generica e indiscutibile assicurazione del politicamente corretto, si sta facendo scempio non solo della coerenza istituzionale e politica, ma persino dell’elementare logica del buonsenso.
Entrambe le due ultime legislature, quella che tra pochi mesi si concluderà e quella che l’ha preceduta, si segnaleranno ai posteri per l’approvazione di due riforme, sempre in nome del federalismo, che, invece di snellire e rafforzare la governabilità complessiva del nostro Paese, aggraveranno i conflitti di competenza, la macchinosità delle procedure, gli squilibri territoriali.
A dir la verità, il termine federalismo non ha mai avuto fortuna in Italia. Senza voler risalire a Cattaneo e alla sconfitta di quel filone culturale e politico nella storia del nostro Risorgimento, fin dall’Assemblea costituente la strumentalità con la quale le forze politiche si sono divise, su questo tema, è apparsa evidente.
Prima del 18 aprile 1948, i cattolici, sull’onda dell’insegnamento sturziano, erano nettamente a favore delle autonomie locali. Le sinistre, invece, temevano un regionalismo che impedisse al potere centrale una efficace programmazione economica.
Dopo il clamoroso verdetto elettorale, le posizioni si invertirono: non per certo per una salutare riflessione intellettuale, ma per una chiara convenienza di potere.
Lo stesso metodo, inaugurato agli albori della prima Repubblica, si è perpetuato per oltre mezzo secolo e ha celebrato il suo trionfo nella cosiddetta seconda Repubblica.
Da quando la Lega è diventata il possibile ago della bilancia nella competizione fra i due Poli e il partito di Bossi si è convinto dell’impossibilità della secessione, tutti i partiti italiani, compreso il più statalista di tutti, An, sono diventati federalisti.
Senza una profonda convinzione, un vero dibattito culturale, politico, costituzionale ci si è lanciati in una folle corsa verso bicamerali, commissioni, persino baite di montagna che hanno partorito una pletora di progetti contraddittori, superficiali, molte volte sconvolgenti nella formulazione legislativa e innocui nella pratica applicazione.
Gli esempi potrebbero essere innumerevoli, basti pensare alle assurdità della riforma approvata dal centrosinistra nella scorsa legislatura che autorizzava le singole regioni a scegliersi la forma di governo preferita.
Possibilità che solo la Corte costituzionale, con una interpretazione coraggiosa ma del tutto meritoria, proibì, ad esempio, alla Regione Calabria che, appunto, aveva deciso di «prendere sul serio»(?) quella legge.
Una «par condicio» dell’orrore potrebbe suggerire l’analogo sconcerto per il modo con il quale il centrodestra si appresta, ora, a correggere quella riforma.
Citiamo solo la trasformazione del Senato non in una vera Camera di rappresentanza dei governi regionali, sul modello del sistema tedesco, ma in una assemblea di notabili che, magari, non corrispondono agli orientamenti politici delle rispettive giunte regionali.
Un Senato a cui non compete di dare la fiducia al governo nazionale, ma a cui è affidato il potere di veto su importantissime leggi di interesse sovraregionale.
L’occasione, forse l’ultima, potrebbe essere colta per un ampio dibattito, con qualche augurabile conseguenza pratica, sulla qualità della legislazione che la nostra classe politica sforna in Parlamento.
Con la partecipazione delle massime cariche della Repubblica nella loro responsabilità di garanti non di uno schieramento politico, ma del funzionamento complessivo delle nostre istituzioni.
L’ipotesi, non ci si allarmi troppo, rientra in quella che i nostri professori, a scuola, ci insegnavano a considerare «del terzo tipo», cioè dell’irrealtà. Anche questa volta, sarà puntualmente sprecata.