Non si sente un po’ più solo di qualche settimana fa?
«No, perché dovunque vado trovo partecipazione, interesse e disponibilità. Continuo a percepire una spinta a costruire il Pd, e a farlo nel modo più efficace».
Nonostante quello che dice Parisi?
«Guardi, il meglio è spesso nemico del bene. E le fughe in avanti rischiano di farci smarrire la strada. La nascita di un partito non può essere un atto solitario di volontà. Io non faccio il predicatore: sono segretario di una forza con oltre 6 milioni di voti. E voglio portarli tutti nel Pd; e con loro altri elettori che non sono nei partiti».
Se dovesse scegliere? Sarebbe più importante l’unità interna dei Ds o il Pd?
«Lavoro per portare tutti i diessini nel Pd: separarsi sarebbe insensato. E ho l’impressione che questo dibattito sia già datato: la quasi totalità degli iscritti diessini sono contro la scissione. Dunque, non sono frenato da questo. Veniamo da cent’anni di storia della sinistra, durante i quali si pensava che i problemi si risolvessero separandoci. Invece la divisione ci ha portato solo delusioni e sconfitte».
Eppure qualche alleato ritiene che voi freniate perché temete la spaccatura.
«Mi sembra un errore ritenere che esistano pochi illuminati che vogliono fare il nuovo partito, mentre noi diessini saremmo i frenatori. Ricordo che siamo stati noi a puntare su questo soggetto con Prodi, nel 2003; ad avere voluto la lista dell’Ulivo alle europee nel 2004; e ad avere insistito per la lista “Uniti per l’Ulivo”, nonostante altri non la volessero alle regionali del 2005 e alle politiche. E siamo quelli che hanno creduto di più nelle primarie, garantendone il successo».
Insomma, è sempre convinto che all’Unione serva il Pd.
«Serve al Paese. C’è una disaffezione crescente verso la politica. E c’è una nostalgia palpabile del sistema proporzionale. Il Pd è necessario per evitare questa deriva e una crisi del sistema. Ci sono momenti in cui una nazione è chiamata a interrogarsi su se stessa. Penso alla Spagna postfranchista, alla Germania dopo la caduta del Muro di Berlino, e alla Francia tra Quarta e Quinta Repubblica. Ecco, l’Italia è ad un passaggio non meno decisivo. Deve sapere dove si colloca in Europa e nel mondo; ricostruire la competitività economica, la coesione sociale e la stessa identità nazionale: pochi anni fa si parlava di secessione. Il Pd serve a guidare questa fase; e a vincere una scommessa che la destra ha tentato, e perso».
Il suo gradualismo non riscuote grandi consensi. L’idea della doppia affiliazione, al Pd e ai partiti fondatori, sul modello del sindacato metalmeccanico, è stata bocciata.
«Non sono così sciocco da proporre il modello della Flm per il Pd. Era un esempio per indicare la strada, per fare incontrare partiti e non partiti, per uscire da una contrapposizione astratta. E infatti quando l’ho detto in un’assemblea di 600 persone, a Milano, ci sono stati applausi, non mugugni. Mai essere velleitari, in politica. Bisogna individuare obiettivi alti, ma soprattutto la strada giusta per raggiungerli».
Ma Parisi è visto come il custode dell’ortodossia prodiana. Lei ha appena incontrato Romano Prodi. Condivide la sua analisi?
«Con Prodi abbiamo confermato l’impegno a costruire il Pd, seguendo lo schema non scelto da me, ma da tutti noi, insieme».
Non teme che alla fine possa nascere fuori e quasi contro i partiti, attraverso una sorta di primarie?
«Non credo alle scorciatoie plebiscitarie per costruire il Pd. Contrapporre società e partiti è un falso dilemma. Chiederò che nello statuto siano previste in modo vincolante le primarie sulle candidature; che si facciano dei referendum per consultare gli iscritti sui grandi temi; e che i dirigenti siano eletti a voto segreto e con un termine al mandato. Ma queste cose le fa un partito, non un movimento d’opinione: un partito con radici robuste e organizzazione capillare; e che fa attività elettorale tutto l’anno».
Che il progetto sia in affanno, però, è un fatto. Come lo è l’affanno del governo. Influisce di più in negativo il primo o il secondo?
«L’affanno del governo rende più difficile la costruzione del Pd, e non viceversa. Non lo dico per scaricare le colpe, ma la fatica della quotidianità pesa sui progetti di lungo periodo. Credo anche che la Finanziaria sia giusta negli obiettivi, nell’impostazione e nelle scelte. Deve cancellare i cinque anni ereditati dal governo Berlusconi, rimettendo in moto la crescita, riducendo deficit e debito, e dando certezze alle famiglie».
La Confindustria è meno ottimista di lei.
«Invece credo che il tasso di crescita si avvicinerà a una soglia fra l’1,5 e il 2 per cento, e il deficit sarà sotto il 3. Poi vedremo».
È stato sorpreso da quello che il ministro Padoa- Schioppa ha chiamato l’attacco del «partito» confindustriale?
«Non vedo un partito della Confindustria. Mi pare invece che fra gli imprenditori ci sia una sottovalutazione degli effetti benefici della Finanziaria sugli investimenti, sia per le imprese sia per le infrastrutture. Ma è vero che c’è stato un limite del governo e dell’Unione. E il limite di comunicazione è stato figlio di quello vero: non aver saputo costruire una “condivisione” delle scelte. C’è un filo che lega il disagio degli operai di Mirafiori, gli artigiani di Venezia e i ricercatori universitari: non si sono sentiti riconosciuti».
Glielo ha confermato il suo giro nel Nord?
«Mi ha confermato che anche lì dove il cuore batte a destra, è importante riconoscere gli interlocutori. Per un mondo delle imprese misconosciuto dal governo, 3 punti di cuneo fiscale sono nulla: e non ne basterebbero nemmeno 100. Ma se li riconosci, ne bastano anche meno».
A Palazzo Chigi, a molti fischieranno le orecchie.
«Non fischio falli a nessuno. I Ds sono il primo partito del governo. Si sentono corresponsabili, e sono altrettanto leali. Ma andiamo verso una fase non meno complicata della Finanziaria. Prodi e Padoa- Schioppa annunciano riforme impegnative. O ci poniamo l’obiettivo di una condivisione delle scelte, o anche le cose più giuste non saranno percepite come tali».
Tutto si tiene, a sentire lei.
«Ne sono convinto. Il Pd servirà a dare forza e guida alla coalizione; e la credibilità del governo aiuterà il Pd».
Eppure rimangono contrasti profondi con alcuni alleati.
«Certo, costruire il Pd è un’impresa più difficile quando qualcuno ogni giorno esaspera i temi etici».
Allude ad una parte della Margherita?
«Si sa di chi parlo. E noi diessini cerchiamo soluzioni condivise, non lacerazioni. Se Parisi desse una mano su questo… Invece non l’ho mai sentito dire una parola».
Esiste anche una politica dei silenzi.
«In certi casi è dannosa. Se c’è un terreno su cui il Pd ha marcato le maggiori difficoltà, è quello dei temi etici. Ed è responsabilità di quanti credono nel Pd cercare un terreno di incontro».
Non può aver pesato anche il fatto che parte della sinistra non ha mai digerito la sconfitta referendaria del 2005?
«Quella sconfitta in realtà era maturata prima: nell’impossibilità, e molto per responsabilità della destra, di trovare in Parlamento un compromesso ragionevole. Il referendum sulla fecondazione assistita l’ho sostenuto e mi sono speso più di altri. Ma questa vicenda ci dice che su temi delicati sul piano etico, laicità non è piantare bandiere ideologiche, ma far prevalere le capacità di ascolto delle ragioni altrui e trovare soluzioni condivise. Per questo, ad esempio, mi batterò per la legge sulle coppie di fatto. Ma cercherò un consenso più largo possibile, nell’interesse del Paese. Forzare è sempre sbagliato sia che lo faccia la Binetti, sia qualche esponente della sinistra».
Ritiene ci sia un’ingerenza della Chiesa?
«Non ho mai capito la denuncia di un’ingerenza: è priva di senso per chi ha una cultura liberale. Non chiedo mai ad un altro di tacere, né cerco di inibire un pensiero. Non lo chiedo, né voglio mi si chieda. Ma so che il punto di vista dello Stato e della fede sono diversi, e che devo tenere conto dell’aspetto religioso: soprattutto in un Paese come il nostro a grande maggioranza cattolica. È così che si possono evitare le lacerazioni».
La accuseranno di minare la laicità dello Stato.
«Al contrario, la sto esaltando: per me, la laicità è la capacità di far convivere una pluralità di opzioni, di perseguire soluzioni condivise che riconoscano la libertà dei cittadini. Senza forzature che il più delle volte sono strumentali e possono rivelarsi pericolosi boomerang».