15 Agosto 2005
E’ un gesto simbolico
Autore: Igor Man
La notizia non è che il Disimpegno (lo sgombero dei «coloni» israeliani da Gaza) è già in corso, secondo il calendario dettato dal primo ministro Sharon. No. La notizia è che Gaza non è Eretz Israel, vale a dire non appartiene alla Terra Promessa. Così parlò Sharon, lui, «Arik», l’implacabile soldato cui Israele deve tante delle sue sbalorditive vittorie, il leader israeliano che più di tutti, durante trent’anni e passa, s’è dedicato ad impiantar sempre nuove «colonie» e sempre più nel cuore della Palestina araba. E questo perché fosse chiaro – ad amici e nemici – che l’insediamento nelle «terre bibliche» di «colonie» ebraiche era una realtà. Irrevocabile. Invece: «Andarcene è una buona cosa. Quella terra non è la nostra terra», ipse dixit, a Israele, al mondo, Sharon.
Il diavolo s’è fatto frate? il ritiro da Gaza prelude a un futuro sgombero di Israele dai territori occupati, nel 1967, grazie a quel capolavoro bellico passato alla Storia come la Guerra dei Sei giorni? Vediamo. «Un unico motivo ricorre nel vissuto di Sharon: “provocare sempre una escalation”. Egli ritiene che da un disordine causato da un aumento di violenza, uscirà sempre vincitore». (Volti d’Israele di Avishai Margalit – Carocci).
Con la famosa passeggiata sulla Spianata delle Moschee, Sharon accelerò lo scoppio della seconda intifada che ha trasformato Gaza in una fabbrica di terroristi suicidi. Ebbene, il generale-premier esce da quell’inferno da vincitore, ovvero, come gridano i leaders palestinesi (dai duri di Hamas allo stesso accomodante Abu Mazen) da sconfitto? Non ha vinto ma neanche ha perso. Certamente alla lunga la asimmetrica guerra di attrito con la galassia assolutista di Hamas avrebbe finito col logorare anche un esercito eccellente qual è quello israeliano, la cui laicità leggendaria, per altro, segna il passo di fronte al montare d’una predicazione religiosa intrisa di nazionalismo istericamente estremista.
Sharon ha spedito in paradiso tutti i più incisivi leaders di Hamas, ha messo in galera agitatori grandi e piccini ma per sradicare un movimento che è anche una capillare opera assistenziale avrebbe dovuto scatenare una guerra senza misericordia e questo avrebbe significato impantanarsi in una palude insidiosa, in un Paese dove ogni soldatino ha nome e cognome e indirizzo, attirandosi per di più la rituale accusa di «genocidio». Ha preferito andarsene da Gaza perché il ritiro di appena 7500 «coloni» può anche comportare fastidi non solo politici ma è soltanto un gesto simbolico.
Che poi ci sia qualcuno che crede d’aver battuto Sharon e Tzahal, e gridi «dopo Gaza Gerusalemme», pazienza. Nel 1956, dopo la crisi di Suez, i caschi blu dell’Onu fecero da (valido) cuscinetto fra le truppe anglofrancesi e quelle egiziane. Via via i caschi blu si ritiravano consentendo così all’esercito (dimezzato terribilmente) di Nasser di fare ingresso a Ismailia, a Porto Said. Chi scrive era laggiù e ricorda i titoli, gli articoli trionfali della stampa egiziana. Non è una novità e infatti Sharon ha lasciato correre. Il vecchio generale non ha nessuna intenzione di restituire i territori occupati nel 1967 e, del resto, la leadership palestinese sembra aver già metabolizzato «piccoli ritocchi» addolciti da «compensazioni territoriali».
Par di capire che una volta ancora e questa volta più che mai, Sharon preferisca accordarsi con gli Stati Uniti piuttosto che con gli arabi. Il ritiro da Gaza fu subito benedetto da Bush dal quale Sharon vorrebbe, ora, un ruolo importante nel progetto di democratizzazione del Medio Oriente. Ma codesto progetto passa per la cruna, stretta assai, del post-komeinismo nell’Iran ossessionato dal nucleare. La sicurezza di Israele è legata alla pace ma una pace in buona e dovuta forma comporta ben altri «sacrifici» che non il ritiro (remunerato) da Gaza. Durante la crisi di Suez, nel 1956, i ragazzi israeliani cantavano: «Sempre in tre / saremo: / io, tu e la prossima guerra».
Cosa cantano, oggi, i ragazzi nati in gran parte dopo la Guerra dei Sei giorni e pei quali l’occupazione della Cisgiordania è un dato di fatto? Forse neanche gli amici di «Pace adesso» lo sanno.