La riforma del Patto di stabilità, il passaggio che avrebbe dovuto aprire la strada a una diversa stagione di politica economica, si è arenata.
Paghiamo il prezzo di uno sviluppo troppo lento che ci costringe a far ricorso, ormai da troppo tempo, alla fantasia dei giuristi e alle acrobazie della finanza creativa. Più aumenta il numero degli europei che lo considerano « stupido » più il Patto, beffardo, resiste.
Le cronache che ci arrivano dalla capitale belga parlano di un clima di confusione, persino della difficoltà di trovare un lessico comune. I Paesi del capitalismo renano alle prese con le loro economie stagnanti hanno bisogno di politiche espansive e quindi non aspettano altro che poter sfondare gli storici parametri di Maastricht. I Paesi virtuosi della vecchia Europa, come Austria e Olanda, non hanno nessuna intenzione di concedere un pasto gratis ( e che pasto!) a francesi e tedeschi.
Ma la vera sorpresa è venuta dai nuovi Stati dell’Unione: per loro il vincolo del 3% del rapporto tra deficit e Pil esiste ancora, rappresenta — come per l’Italia della seconda metà degli anni Novanta — la condizione per poter accedere all’euro, per poter sperare in un futuro di tassi d’interesse bassi e stabili.
Le Repubbliche baltiche come quelle mitteleuropee non accettano che i vincoli di bilancio finiscano per essere validi solo per coloro che devono entrare e non per chi già è dentro. Se poi si pensa solo per un momento all’imbarazzante precedente greco, al caso di un Paese che non si sa ancora con certezza se i parametri li avesse centrati o no, si capisce qualcosa di più dell’intransigenza dei nuovi soci.
Da qui la contestazione del compromesso — decisamente favorevole a Parigi e Berlino — stilato dal lussemburghese Jean Claude Juncker, l’unico politico ancora in servizio che abbia la ventura di essere tra i firmatari del trattato di Maastricht. Toccherà proprio a lui già dai prossimi giorni tentare di riannodare i fili del negoziato ma mai come questa volta conviene rifuggire dai facili pronostici. Da qui al Consiglio europeo del 22 e 23 marzo i tempi appaiono stretti.
In tanta confusione l’Italia ha giocato le sue carte mostrando una certa abilità tattica. Come un ciclista esperto il ministro Domenico Siniscalco ha succhiato le ruote di Francia e Germania ed è stato attentissimo a non uscire allo scoperto. L’accantonamento della vecchia bozza Almunia che penalizzava Roma per l’eccezionalità del suo debito lo ha aiutato e gli ha consentito di restare al sicuro, nel gruppo.
Il governo Berlusconi ha bisogno che il Patto venga riformato vuoi perché la crescita nel Belpaese è ai minimi storici vuoi perché si va incontro a un ciclo elettorale decisivo e il centro destra ha bisogno di largheggiare. Insomma se oggi Roma è al 3%, come ha ampiamente dichiarato Siniscalco, sa di aver bisogno di grande flessibilità nell’immediato futuro. La possibilità di implementare una nuova tranche di riforma fiscale, i 12 miliardi di euro per il 2006 che il premier italiano ribadisce un giorno sì e un giorno no, è appesa al risultato del negoziato europeo e non è roba da poco. Sarebbe infatti paradossale se dopo una condotta tanto accorta l’Italia finisse per pagare il conto di un’Europa a 25 irrimediabilmente divisa.
Se a fine marzo si dovesse arrivare all’assurdo di un riconoscimento dell’impossibilità dell’accordo e il Patto restasse in vita così come è oggi, Roma tornerebbe ad essere un sorvegliato speciale.