I PRESIDENTI passano, la Repubblica resta. Ma c’è presidente e presidente
anche perché quello previsto dalla nostra Costituzione è una figura a parte
rispetto agli altri Paesi fondatori della Comunità europea. Altrove infatti
il capo dello Stato è una figura esclusivamente rappresentativa.
Non ha
alcun potere effettivo se non quello di presenziare e registrare con la sua
presenza gli accadimenti pubblici di rilievo. Le firme che appone in calce
ai documenti di Stato sono “dovute”, punto e basta. Fa eccezione la
Costituzione gollista tuttora in vigore in Francia, dove il capo dello Stato
ha prerogative “presidenziali” e dispone direttamente del governo tutte le
volte in cui la maggioranza parlamentare sia dello stesso colore di quella
presidenziale. Quando ciò non avviene c’è coabitazione tra governo e
presidenza della Repubblica alla quale restano comunque le attribuzioni
riguardanti la politica estera e quella della Difesa.
Il caso italiano è
intermedio tra quello francese e i capi di Stato puramente e rigorosamente
notarili degli altri Paesi europei. Il nostro infatti non ha alcun potere
diretto ed esclusivo (salvo la grazia, la nomina dei senatori a vita e
quella d’una quota dei componenti della Corte Costituzionale). Infatti non
ha responsabilità politica. Ma detiene tuttavia alcuni poteri “indiretti”
che esercita in vario modo: può rinviare leggi ad un secondo esame
parlamentare, può negare la firma su decreti-legge, coordina i vari organi
costituzionali, presiede il Consiglio della magistratura e quello di Difesa,
garantisce il rispetto della Costituzione. Si tratta dunque d’una figura
complessa, le cui attribuzioni consentono un’interpretazione e quindi una
notevole dose di discrezionalità. Per questo diciamo che c’è presidente e
presidente. C’è stato chi ha schiacciato di più un pedale invece d’un altro,
chi più si è attenuto al modello notarile e chi ha accentuato quello
presidenzialista entro i limiti che la Costituzione consente.
A giudizio di
gran parte della pubblica opinione, il presidente che meglio si è tenuto nel
giusto mezzo di queste diverse interpretazioni costituzionali è stato
Ciampi. Proprio per questo ha riscosso per tutto il suo settennato un indice
di popolarità che ha sfiorato l’unanimità e che ha fatto dire a molti che la
pretesa spaccatura dell’Italia in due è una fandonia. Purtroppo le cose non
stanno esattamente così e la spaccatura esiste ed è profonda. Ma c’è un
minimo comune denominatore, rappresentato appunto dalla presidenza Ciampi e
dal modello che egli lascia ai suoi successori. * * * Nei giorni scorsi i
giornali – e il nostro in particolare – hanno ricevuto numerose richieste da
parte dei lettori di un giudizio sul nuovo presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano. I giornali interagiscono con il loro pubblico, ne sono
la voce, lo influenzano e ne sono influenzati.
È perciò normale che di
fronte ad eventi di speciale importanza quel dialogo si ravvivi e sbocchi in
un giudizio di merito. Ebbene, non dico nulla che già non sia noto: noi
riteniamo ottima la scelta del nuovo capo dello Stato. Per molte ragioni.
Anzitutto per la sua integrità morale e intellettuale. Poi perché, essendo
stato dirigente di alto rango del Partito comunista, la sua presenza al
Quirinale fa cadere definitivamente quella “conventio ad excludendum” degli
epigoni del Pci dall’esercizio di funzioni pubbliche che ancora si annida in
alcuni settori della politica italiana senza più alcuna ragione di esserci e
certifica l’avvento d’una democrazia compiuta che almeno dal 1989 è stato
uno degli obiettivi di chi ha a cuore il consolidamento delle nostre
istituzioni. Infine – e questa è per noi la motivazione principale del
nostro giudizio – perché Giorgio Napolitano, per carattere, biografia
politica e cultura, è il più vicino al modello Ciampi e alla sua
interpretazione del ruolo presidenziale. Non sarà certo una copia del suo
predecessore ma ne adotterà la misura, l’equilibrio e la vocazione a
mantenere quella funzione al di sopra delle parti avendo di mira
esclusivamente il pubblico interesse, l’ordinato esercizio del governo e
dell’opposizione, lo stato di diritto e la forza viva e dinamica del dettato
costituzionale. E perciò, con una frase che in questo caso non è rituale né
retorica, diciamo “viva il presidente della Repubblica”, garante di tutti al
di sopra dello spirito di fazione. * * * Resta ora il problema del governo.
Problema cruciale poiché l’eredità che la passata legislatura lascia a
quella testé iniziata è molto pesante e richiede cure urgenti e per certi
aspetti contraddittorie nel settore dell’economia, del mercato del lavoro e
nel delicatissimo campo delle comunicazioni. Prodi, a quanto si sa, sta
risolvendo la composizione della lista dei ministri. Alcuni punti sono già
acquisiti: ci sarà Padoa Schioppa all’Economia e D’Alema agli Esteri.
È
probabile ed auspicabile che le Finanze, accorpate all’Economia, siano
affidate a persona di alta competenza e con la necessaria autonomia
operativa: si tratta infatti di implementare le entrate dello Stato per far
fronte alla necessità di rilanciare la crescita e al tempo stesso di
raddrizzare il deficit e invertire la tendenza all’aumento del debito
pubblico. Il lascito del precedente governo è molto negativo come appare
dalle più recenti cifre fornite dalla Commissione di Bruxelles e dal Fondo
monetario internazionale. La spesa corrente è passata dal 2001 al 2006 da
una percentuale di 37,6 in rapporto al Pil al 40,5 con un aumento di 3 punti
di Pil: aumento pesantissimo che va sicuramente bloccato e possibilmente
ricondotto indietro. Contemporaneamente l’avanzo primario al netto degli
interessi sul debito è crollato nello stesso periodo dal 3,2 a meno 0,5.
Le
spese in conto capitali, cioè il complesso degli investimenti pubblici, è
rimasto fermo nel quinquennio al 4,2 e questa è la prova più eloquente del
mancato rilancio degli investimenti nelle infrastrutture ordinarie e
straordinarie. Nel contempo il rapporto deficit/Pil, che misura il rispetto
del patto europeo di stabilità, si è collocato nel 2005 al 4,1 e minaccia di
arrivare – a parità di legislazione – al 4,5 nell’anno in corso. Alcune
fonti non ufficiali ma molto attendibili prevedono che tale rapporto
arriverà addirittura a superare il 5 per cento, livello estremamente elevato
e tale da provocare interventi drastici da parte delle autorità europee. Il
leggero miglioramento congiunturale che si è registrato nel primo trimestre
di quest’anno è indubbiamente un segnale positivo ma ancora labile e
comunque insufficiente a far fronte al pesantissimo fardello finanziario
ereditato dal precedente governo e alle esigenze urgenti di rilanciare la
crescita e la competitività del sistema. Da quest’ultimo punto di vista è
noto che la parte imprenditoriale raccomanda che la legge Biagi non venga
abolita, per dire che non si regredisca dalla flessibilità alla rigidità del
mercato del lavoro.
La polemica che alcuni giornali stanno montando su
questo punto sembra però del tutto impropria. Prodi ha detto chiaramente e
più volte ha ripetuto che la flessibilità di accesso al lavoro non verrà
revocata. La lotta al precariato comincerà solo dopo i primi due anni di
flessibilità e si baserà su una manovra graduale di incentivi e disincentivi
per favorire lo sbocco verso contratti a tempo indeterminato che sono
nell’interesse di tutti. In più bisognerà varare un sistema di
ammortizzatori sociali che il libro bianco di Biagi presupponeva e che lo
stesso governo Berlusconi aveva pattuito con Cisl e Uil nel cosiddetto patto
Italia, ma che non fu mai attuato. Dov’è dunque il problema? Questa è la
politica del lavoro programmata dall’Unione e dal governo Prodi. Non
l’abolizione della legge Biagi ma il suo completamento necessario e già
previsto nel libro bianco del suo ispiratore. In più la semplificazione di
alcune forme contrattuali che l’esperienza ha rivelato inutili o dannose.
Questo complesso di problemi che definire drammatico è dir poco, comporta un
governo forte e coeso e una coalizione che guardi all’essenziale e lo
persegua con limpida tenacia.
Non c’è posto per rivalità di cortile e per
visibilità di pura apparenza partitocratica. Da questo punto di vista Prodi
ha una grande responsabilità. Gli strumenti per farsi valere non gli
mancano, a cominciare dal dettato costituzionale che vede nel presidente del
Consiglio la sola fonte di proposta dei ministri. Ma al di là dei poteri
esclusivi che la Costituzione gli riconosce nella composizione del governo,
milita a suo favore la drammaticità della situazione economica e l’urgenza
di porvi riparo. * * * Mi sembra soltanto giusto ricordare qui, in calce a
questa nota, il contributo di saggezza politica offerto alla coalizione di
maggioranza da Piero Fassino. Intanto per essere stato soprattutto lui a
costruire la candidatura vincente di Giorgio Napolitano. Poi per la
decisione dell’altro ieri, di restar fuori dal governo per occuparsi del
partito e della costruzione, insieme al gruppo dirigente della Margherita,
del futuro partito democratico. Su questa prospettiva incombono molte
perplessità e talune opposizioni. Se esse avessero il sopravvento lo sbocco
unitario delle varie anime del riformismo verrebbe bloccato con grave danno
per tutta la sinistra italiana.
La decisione di Fassino di privilegiare
quell’obiettivo lasciando ad altri le responsabilità di governo merita
dunque di essere apprezzata. Così pure la presenza di D’Alema nel ministero
a conclusione di una vicenda che può avergli causato qualche amarezza ma che
si è conclusa comunque nel modo migliore per il paese. Chi concepisce la
politica come pubblico servizio dovrebbe sentirsi appagato da questa
consapevolezza ed è ciò che alla fine ci sembra essere avvenuto. Mentre
scrivo queste righe non so se Giuliano Amato accetterà l’offerta di far
parte del ministero in una posizione di adeguato rilievo. Ci auguriamo che
la sua presenza non manchi. Amato è stato ed è un talento politico che
accoppia moralità e competenza, autorevolezza e dedizione al pubblico
interesse. Ne ha dato molte volte la prova nel corso degli anni. Mai come
oggi quelle qualità servono e vanno utilizzate.