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11 Maggio 2006

Due sinistre al Quirinale. Risarcimento per una storia mancata

Autore: Paolo Mieli
Fonte: Corriere della Sera


Per quel che riguarda il fatto in sé, l’elezione di Giorgio Napolitano a presidente della Repubblica, c’è pochissimo da dire: un evento fausto, più che fausto. Il centrosinistra dopo un avvio poco promettente in cui – con l’eccezione di radical socialisti, Margherita e, va detto, gran parte della propria area di riferimento – era parso considerare il Quirinale alla stregua di una «casella» di competenza ds nel fin troppo esibito gioco di ripartizione del bottino postelettorale, tanto da sembrare che potesse contraddire in un batter d’occhio anni e anni di prese di posizione sulla necessità di salvare le istituzioni dagli effetti impropri del maggioritario, dopo questa stridente ouverture , dicevamo, lo schieramento uscito vincitore dalle elezioni del 9 aprile in extremis è riuscito a offrire all’opposizione un candidato a ogni evidenza al di sopra delle parti. È vero, Napolitano è stato scelto innegabilmente anche perché viene dalla storia del Pci, ma il fatto che da almeno due decenni fosse una figura di quelle che senza esitazione vengono definite d’alto profilo istituzionale e di indiscutibile caratura europea ha ridotto al minimo le obiezioni nei suoi confronti. Ed è questo quello che ha contato e che conta.


Il centrodestra ha compreso al volo la novità
rappresentata dall’ingresso sulla scena di un tale candidato, nella sostanza non ha posto ostacoli davanti a lui e ha badato, con la scheda bianca, a salvare le apparenze: nessuno avrebbe dovuto poter dire che deputati e senatori della Casa delle Libertà avevano contribuito a far salire sul Colle un ex comunista. Ma questo delle apparenze è un problema non piccolo: se un leader come Silvio Berlusconi non è in grado di spiegare alle sue genti perché è opportuno votare quel senatore a vita non molto dissimile da colui che senatore a vita lo aveva nominato (quel Carlo Azeglio Ciampi di cui loro stessi avevano appena proposto la rielezione), questo significa che il rapporto di Berlusconi con il suo popolo ha un che di incompleto. Intendiamoci, qui non si vuol negare che l’ex presidente del Consiglio abbia un’evidente marcia in più al momento in cui si tratta di raccogliere il consenso, si devono conquistare i voti su e giù per l’Italia, e ciò non è cosa da poco. Ma è evidente che poi – al momento di governare o di fare politica – egli non riesce, per così dire, a esprimersi compiutamente. Ci è parso migliore – e ce l’aspettavamo – il comportamento di Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini anche se, riconosciuto loro il diritto a tener fede ai vincoli di coalizione, avremmo preferito che avessero lasciato libertà di voto a quei parlamentari i quali, alla maniera di Marco Follini, volevano esprimersi nei modi dettati dalla loro coscienza. In ogni caso, è vero, oggi per la prima volta un ex comunista è chiamato a rappresentare l’unità nazionale ed è un evento su cui dobbiamo fermarci a riflettere.


Che tipo di ex comunista è Giorgio Napolitano?
Un dirigente di primo piano, innanzitutto, anzi, di primissimo piano. Quarant’anni fa, nel 1966, parve che stesse per diventare addirittura segretario del partito. Palmiro Togliatti era scomparso nell’agosto del ’64, gli era succeduto Luigi Longo e all’inizio del ’66 si era tenuto l’undicesimo congresso, quello in cui era venuto allo scoperto lo scontro tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao. Quelle assise vengono ancora ricordate per la loro incandescenza e si erano concluse con la sconfitta del leader della sinistra interna: Ingrao. Dopodiché, da un accordo tra Amendola e il corpo post togliattiano, era venuta la designazione di Giorgio Napolitano a coordinatore della segreteria, che equivaleva ad indicarlo come successore di Longo. Napolitano fu per un triennio segretario in pectore del Pci, ma quando Longo si ammalò, dopo una complessa consultazione tra i vertici del partito, nel 1969 come vicesegretario fu scelto Enrico Berlinguer. Un autentico colpo di scena. Eletto poi segretario nel 1972, Berlinguer ebbe molti meriti che gli vengono da tempo riconosciuti. Ma noi siamo convinti che se al suo posto ci fosse stato Napolitano la storia di quel partito e di conseguenza quella dell’Italia sarebbero state assai diverse. Per certi versi migliori.


Nel 1964 Amendola aveva proposto la riunificazione
tra socialisti e comunisti. Napolitano era già a quei tempi un socialista europeo alla maniera in cui si poteva esserlo alla metà degli anni Sessanta. Ed è probabile che se fosse toccato a lui – con il conforto politico, morale e intellettuale di Amendola – il Pci si sarebbe apparentato molto prima alla famiglia del socialismo europeo. Talché la generazione oggi al potere nei Ds, quella di Piero Fassino, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Fabio Mussi, Gavino Angius, Livia Turco, sarebbe entrata o avrebbe mosso i primi passi in un partito assai più riformista e occidentale di come fu. Un partito che, per dirla in sintesi, avrebbe abbandonato le stesse insegne del comunismo ben prima del 1989, l’anno della caduta del Muro di Berlino. E anche se non si può essere sicuri che i tempi dell’approdo sull’altra riva del fiume, sulla sponda socialdemocratica, sarebbero stati anticipati di dieci o vent’anni, è certo che, guidato da Napolitano, il Pci non avrebbe impegnato se stesso per anni e anni in uno scontro con il Psi, probabilmente l’unità della sinistra si sarebbe potuta fare molto prima, e molto prima questo schieramento si sarebbe potuto candidare a governare l’Italia con un leader che non soltanto Berlusconi, ma una buona parte dell’elettorato, per di più in regioni decisive, considera ancora oggi «comunista».


In un certo senso, al di là dell’essere come si è detto all’inizio un evento fausto,
l’ascesa di Napolitano al Colle rappresenta molte altre cose. Un premio e un risarcimento a quella parte minoritaria del Pci che già quarant’anni fa seppe guardare lontano (e vide giusto). Un riconoscimento di come sarebbe stata migliore la storia del nostro Paese se quelle idee avessero trionfato per tempo. E un incoraggiamento a chi oggi fa politica – nel centrosinistra come nel centrodestra – a mettere in campo strategie lungimiranti. Se tanti anni fa Napolitano fosse stato scelto come segretario del Pci probabilmente già dall’inizio degli anni Novanta (forse anche prima) il centrosinistra si sarebbe realizzato attorno ad un baricentro da tutti riconosciuto, e la guida dello schieramento sarebbe stata affidata a lui stesso o ad un suo successore. In tal modo non si sarebbero prodotte le anomalie derivate dalla necessità di affidare il ruolo di guida ad una figura esterna cosa che, in caso di vittoria, genera immancabilmente questa attesa di risarcimento da parte della formazione più consistente della coalizione. Talché Massimo D’Alema, magari dopo essere stato a Palazzo Chigi per effetto di una sua vittoria elettorale, oggi forse entrerebbe al Quirinale da presidente. Come terzo presidente socialista dopo Giuseppe Saragat e Sandro Pertini.