Le tensioni che non smettono di tormentare l’opposizione e ne mettono a rischio la possibilità di vincere domani e di governare dopodomani sono sotto gli occhi di tutti: primarie o no, lista unica o no, chi saranno i capilista, chi paga i manifesti, chi sceglie i candidati, chi i ministri, e via dicendo. E’ anche troppo facile vedervi soltanto rivalità personali, liti di partito, interessi di apparati. I fatti umani hanno spesso un ventaglio di moventi che scende dal nobile all’ignobile. Avere occhi solo per i moventi più bassi qualifica chi guarda forse ancor più che chi è guardato.
Nelle diatribe che lo esasperano, il cittadino deve vedere anche la faticosissima scelta tra due regimi politici, nei quali il primato del potere è rispettivamente nel governo e nel partito. Dico «primato», perché ogni sistema politico sano deve comprendere entrambi gli elementi e, in una certa misura, bilanciarli.
Immaginiamo i due regimi nelle loro forme estreme. Nella forma estrema del primo (primato del governo) il partito si costituisce solo per conquistare il governo e si dissolve dopo la contesa elettorale, quale che ne sia stato l’esito.
Nella forma estrema del secondo regime, il partito è un’organizzazione di sedi, militanti, elaborazione di programmi, dibattiti ideologici che influisce sulla politica senza porre al centro delle sue ambizioni l’esercizio diretto del governo. Nel primo chi tiene il governo comanda anche il partito, direttamente o per interposta persona; nel secondo chi conquista il partito non governa, mentre nel palazzo del governo siede un suo temporaneo delegato. La degenerazione del regime di partito è l’oligarchia; quella del regime di governo è la monocrazia.
La simmetria tra i due regimi non è piena perché un Paese può vivere senza partiti ma non senza governo. Mentre il partito si può ridurre a un esercito di volontari, allestito per l’occasione elettorale e poi sciolto, la macchina del governo non si smonta mai. Perciò il regime di partito tende a essere bicefalo, quello di governo monocefalo.
Governare un Paese e guidare un partito sono espressioni molto diverse del fare politica e corrispondono a due vocazioni che raramente si riuniscono in una stessa persona. Quella di governo è vocazione a coniugare politica e azione, ad amministrare, a decidere, a operare con strutture e persone che non hanno una stessa affiliazione politico-ideologica né una solidarietà di gruppo. Quella di partito è vocazione a coniugare politica e cultura, a dibattere, a costituire più che a spendere il potere, a operare con e tra persone accomunate da lealtà ideologica e di gruppo.
De Gasperi, Scelba, Andreotti, Colombo, Andreatta erano uomini con preminente vocazione di governo. De Mita, Piccoli, Moro, Forlani, Marini erano senza gusto per il governo e impacciati nell’esercitarlo come foche sulla terraferma.
La forza dei partiti è non solo compatibile con la democrazia; ne costituisce addirittura uno strumento primario e una garanzia. Essa separa l’elaborazione strategica dalla conduzione degli affari di governo dando spazio ad ambedue; permette di guardare lontano e vicino allo stesso tempo. Come in certe corse automobilistiche o gare veliche, assicura un pilota e un navigatore. Quando funziona al meglio, la vita di partito — e forse solo quella — offre ai cittadini una possibilità di impegno politico effettivo, disinteressato, meno sporadico del semplice andare a votare, orientato al bene pubblico piuttosto che a un interesse di categoria.