2222
15 Marzo 2006

Due idee dell’Italia

Autore: Massimo Giannini
Fonte: la Repubblica

Il «piano quinquennale della noia», che secondo i disinvolti cantori di Silvio Berlusconi doveva scattare da ieri sera alle 21, ha mietuto la sua prima vittima. È lo stesso Cavaliere, che ha mestamente fallito nel suo primo faccia a faccia televisivo con Romano Prodi.

Doveva essere «un invito a cena con gli elettori indecisi», come aveva scritto ieri il Financial Times, interpretando le intenzioni del presidente del Consiglio. Il sovrano seducente, ottimista e post-moderno, che aveva incantato gli italiani nel ´94 e nel 2001, è riuscito invece ad esprimere l´esatto contrario di ciò che un tempo gli avrebbe suggerito il suo super-ego migliore.

È apparso per quello che, oggi, è ormai diventato: non il «caimano generoso e autoironico» cantato da Giuliano Ferrara, ma un leader rancoroso ed afasico, che ha esaurito tutto quello che di buono o di cattivo aveva da offrire.


Questa prima sfida elettorale l´ha vinta Prodi. In parte per meriti suoi. Nei limiti del possibile, il Professore ha cercato di trasmettere a chi lo ascolta un messaggio positivo, e soprattutto rivolto al futuro.

Ha provato a lanciare segnali di speranza a un Paese sfibrato. Ha tentato di formulare inviti alla coesione a un´Italia disillusa che, nella feroce balcanizzazione politica di questi ultimi anni e nello sterile dibattito tra programmismo e declinismo di questi ultimi giorni, rischia di smarrire per sempre se stessa. Ma il Professore ha vinto soprattutto per i demeriti del Cavaliere.


Nel metodo, Berlusconi ha dimostrato quello che già si sapeva. Ingabbiato in un quadro di regole rigide e finalmente codificate, il premier diventa un animale ferito, che si agita e riesce a comunicare soltanto tensione, nervosismo e insofferenza.


Ha sforato più volte i tempi delle sue risposte, cercando di allungare oltre i limiti la rituale sequela dei sedicenti «meriti» conquistati sul campo dal suo governo.

Ha sprecato persino l´ultima possibilità offerta dal faccia a faccia per dire qualcosa di originale e di costruttivo, cioè i tre minuti dell´appello finale agli elettori.

Invece di abbozzare almeno lì uno straccio di proposta per la prossima legislatura, invece di spacciare un paio di idee o magari anche un´altra promessa qualsiasi per convincere quei quasi 10 milioni di indecisi che vale ancora la pena di scommettere sul sogno berlusconiano, ha buttato via i suoi secondi preziosi per lamentarsi del «format», per ripetere ancora una volta la livorosa solfa contro la par condicio, e per attaccare la solita «sinistra» dei vecchi bolscevichi riciclati.

Orfano della sua compagnia di giro di intervistatori compiacenti e di registi personali, disarmato nel suo torrenziale vaniloquio dall´inesorabile scorrere del cronometro, il premier è imploso, avviluppato e imprigionato da un canone per lui innaturale e perciò inaccettabile.

Stravolgendo McLuhan, ha scaricato sul mezzo (il format televisivo) l´insufficienza del messaggio (la sua proposta politica).

Può anche darsi che quell´ora e mezza di domande e risposte rigidamente contingentate, quelle inquadrature fisse freddamente suddivise, abbiano nuociuto allo «spettacolo». Può anche darsi che qua e là siano risultate effettivamente «noiose».

Ma se per una volta la competizione politica italiana cessa di essere quel pirotecnico circo mediatico che abbiamo conosciuto in questi anni, dove il più forte scorrazza allo stato brado su tutte le verdi vallate dell´etere, lo spettatore ci perde forse qualcosa in emozione, ma ci può guadagnare molto in comprensione.

Il «sistema americano de noantri», come qualche detrattore azzurro l´ha definito, ha funzionato come doveva.

Le 32 pagine di regolamento che da decenni regolano i dibattiti televisivi presidenziali negli Stati Uniti, puntigliose e dettagliate fino ai minimi particolari, possono apparire anche surreali nell´allegra e incosciente «Silvioland» in cui viviamo da cinque anni.

Ma in quei limiti e in quelle costrizioni, che le parti in contesa accettano di autoimporsi, c´è la fatica e dunque l´essenza di una democrazia liberale degna di questa definizione.

Per questo Berlusconi le soffre, abituato com´è a quello strano regime imperial-telecratico che ha costruito su se stesso e che ha prescritto alla nazione.


Nel merito, Berlusconi ha ripetuto quello che già si temeva. Numeri e ideologia. La solita minestra riscaldata di dati inverificabili su tutte le meraviglie che il suo governo ha ammannito al Paese.

La solita sbobba rancida di accuse alla «sinistra» e ai «comunisti», evocati fino all´ossessione psicotica. Un impasto immangiabile, per l´elettore indeciso che voleva invitare a cena.

Prodi ha sofferto qualche affondo su Rifondazione e sul «Bertinotti ritrovato», infido cospiratore nel ´98, uomo d´onore nel 2006. Ma su diverse questioni concrete ha avuto buon gioco sul premier: dall´euro alle tasse, dal conflitto di interessi alle opere pubbliche, dalla concertazione al ruolo delle donne.

Il limite vero del dibattito è che i due leader hanno litigato molto sul passato, rimpallandosi accuse e carenze, e discusso assai poco del futuro.

Come ha detto giustamente Marco Follini, è andata in onda la contesa dialettica tra l´Italia del 1996 e quella del 2001. Quella che è mancata è l´Italia del 2006.


Ma anche in questo caso, va detto onestamente che la responsabilità principale è del Cavaliere.

Chiuso nel suo castello di carte, Berlusconi si culla nella pura virtualità fattuale. Nella sua biografia personale, trasfigura la vita di un´Italia che non esiste.

Non sa far altro che parlare di sé, di ciò che ha fatto per il bene dell´Italia, che è ingrata non glielo riconosce.

È una strategia politica anche questa, mutuata dai repubblicani americani: per battere l´avversario, qualunque avversario, bisogna mettere in dubbio e minare l´idea stessa di «fatti».

Per riuscirci, c´è bisogno di un sistema mediatico controllato e compiacente: come scrive Alexander Stille nel suo Citizen Berlusconi, la massima fondamentale del giornalismo e del discorso politico moderno è che «hai il diritto alle tue opinioni, ma non ai tuoi fatti».

In questa legislatura, il Cavaliere, proprio come la destra di Bush, ha creato i propri fatti. A prescindere dalla realtà.


Così il metodo torna a saldarsi col merito. Più il giornalismo e il discorso politico diventano oggettivi ed asettici, più svapora il miracolo berlusconiano.

E magari torna buono un po´ di sano buonsenso prodiano, che punta almeno ad evitare l´ulteriore imbarbarimento politico-sociale che ha dominato questi ultimi anni.

Si confrontano e si scontrano due diverse idee dell´Italia. Forse sono un po´ logore entrambe. Ma quella di Prodi ha almeno un pregio: guarda al domani con una qualche speranza. Non sarà molto. Ma è quanto basta, in questo Paese stanco e sfiduciato.