Apparentemente l’«ipotesi accademica» di un governo di grande coalizione avanzata lunedì su Repubblica da Giulio Tremonti è assai suggestiva: quale soluzione migliore potremmo immaginare di un esecutivo in cui destra, centro e sinistra, accantonata ogni divisione, affrontino una volta per tutte i problemi che restano sul tappeto? Oltretutto con un insieme di forze così vasto si potrebbe procedere al cosiddetto taglio delle ali massimaliste o comunque verrebbe meno ogni motivo per cedere ai ricatti dei settori più oltranzisti. L’idea non è nuova.
È dal 1861, anzi dal decennio che precedette l’unità d’Italia, che si pensa a un grande connubio tra destra e sinistra per aggirare le difficoltà derivate dal non aver noi introiettato per tempo le sane regole di una democrazia moderna, quelle per cui alle elezioni si va divisi in due schieramenti, uno dei quali è destinato a vincere (e a governare per alcuni anni) e l’altro a perdere e a stare all’opposizione fino al giorno in cui, in una nuova tornata elettorale, avrà l’occasione per la rivincita. Non avendo assimilato questo principio (per motivi complessi che sono da anni allo studio degli storici di professione), qui in Italia si è, fin dall’inizio della nostra vicenda di Stato, studiato il modo di risolvere il problema proponendo di volta in volta connubi, trasformismi, unità nazionali, governissimi, esecutivi tecnici, grandi coalizioni e mille altri sinonimi ancora di un’unica soluzione che prevede l’abbattimento della frontiera di divisione fra destra e sinistra.
Ma dopo centocinquan t’anni è giunto il momento di dire nella maniera più chiara che questo genere di teorizzazione è fallace e pericoloso. Fallace perché non è assolutamente dimostrato (anzi) che governi di larghe intese affrontino le emergenze meglio di quanto abbiano saputo fare gabinetti di maggioranza. Pericoloso perché, qui da noi, dentro quest’ideologia grancoalizionista si annida il virus del trasformismo e del ribaltonismo.
A mio avviso, se va riconosciuto un merito (non di scarsa entità) a questa legislatura è quello di avere avuto un unico presidente del Consiglio e un’unica maggioranza, sia pur litigiosissima, durante tutti e cinque gli anni per i quali la Casa delle Libertà aveva ricevuto dagli elettori il mandato a governare. E una menzione speciale va data ai leader dei settori moderati delle due coalizioni (i Casini, i Follini, i Rutelli, i Mastella) per aver resistito alla tentazione di dar vita anche solo a progetti di governo in compagnia di esponenti del campo avverso.
In ogni frangente di crisi si è sempre detto a chiare lettere che l’unica alternativa allo stato di cose esistenti era quella di nuove elezioni. Ottimo. Ritengo adesso che lo stesso principio debba valere in tutto e per tutto anche per la prossima legislatura: il governo che entrerà in carica sull’onda del responso elettorale dei primi di aprile dovrà restare in sella fino al giorno in cui non si tornerà alle urne per nuove elezioni politiche; e dovremo abituarci a diffidare di chi, in nome di una qualche emergenza, verrà a proporci soluzioni diverse.
Anche perché, come ha acutamente osservato ieri su queste pagine Mario Monti, l’Italia del dopo elezioni non potrà permettersi bizzarri esperimenti politici. Di più: il solo almanaccare di queste sperimentazioni è tale da introdurre nella politica italiana il veleno del sospetto, ragion per cui è bene diffidare di questo genere di discussioni anche solo in linea teorica. Talché persino nel caso di pareggio, cioè se le Camere avessero maggioranze diverse, nelle attuali condizioni sarebbe auspicabile un ritorno alle urne. Dopo poco, pochissimo tempo. Addirittura, forse, alla fine della stessa primavera del 2006.