21 Agosto 2005
Dopo la richiesta avanzata dalla comunità ebraica a Colonia Archivi segreti e Shoah, i passi di Ratzinger
Autore: Alberto Melloni
Abraham Lehrer ha chiesto a Benedetto XVI, pellegrino alla sinagoga di Colonia, l’apertura dell’Archivio Segreto Vaticano sulla Seconda guerra mondiale. Una istanza tutt’altro che imprevedibile. Non sarebbe stato consono allo stile antispettacolare di Benedetto XVI accogliere quell’invito su due piedi; non sarebbe stato coerente con la sua statura intellettuale questionare sui tempi indispensabili al riordino; ed era impensabile che un anziano papa, già adolescente nella Germania nazista, rifiutasse, iscrivendosi al club degli alchimisti ai quali basta diluire la carità cristiana verso gli ebrei perseguitati nello spessore secolare del disprezzo antisemita per chiudere la partita.
Dunque Benedetto XVI ha messo l’appello nella valigia per Roma. Con richieste analoghe s’erano misurati anche i predecessori. Paolo VI aveva risposto quarant’anni fa con un assenso pronto e condizionato: non aveva fatto accedere agli archivi tutti, ma aveva nominato una commissione di gesuiti, che aveva selezionato dodici tomi di documenti stampati negli Actes et documents du St. Siège relatifs à la seconde guerre mondiale . Una impresa durata anni, che mentre difendeva il Vaticano dalle accuse di essere stato inerte nella Shoah, rivelava i congegni mentali della «macchina» di soccorsi e relazioni della neutrale politica pontificia. Dal passo montiniano (e dalla scelta dei vescovi tedeschi di pubblicare tutto ciò che s’era salvato dei loro archivi) dipende ancor oggi la migliore storiografia. Ma gli Actes erano destinati ad aumentare la sete di conoscenza, più che a spegnerla.
Giovanni Paolo II andò più avanti: non solo diede accesso all’archivio del Sant’Uffizio, portò al 1922 il limite di consultabilità delle carte vaticane, tenne aperto l’Archivio del Vaticano II, ma tentò anche una commissione mista ebraico-cattolica per gli archivi della Santa Sede sulla guerra, rese disponibili le buste sui rapporti fra Vaticano e Reich nel periodo 1922-1939, aprì i dossier sui prigionieri di guerra e fissò un calendario di massima per l’apertura di tutto il pontificato di Pio XI. Nel frattempo altre carte sono state rese disponibili per decisione superiore a singoli studiosi, anche se – è il caso del volume di padre Giovanni Sale su Hitler, la Santa Sede e gli ebrei – i risultati e il rigore hanno avuto aspre obiezioni. A inizio 2005 papa Wojtyla aveva ripreso in considerazione la questione dell’apertura degli archivi, anche spinto dall’onda d’una polemica non priva di forzature sul destino dei bambini ebrei salvati e talora battezzati nei conventi della Francia occupata. Wojtyla (poco prima di creare una commissione per tutti gli archivi della Santa Sede, che sembrò una blindatura a chi viveva di furbesche largizioni) autorizzò una nuova ricognizione delle carte su Pio XII e gli ebrei chiesta da uno storico italiano.
L’indagine, che si fermò per la scomparsa del pontefice, rischiava comunque di essere un semplice aggiornamento del metodo montiniano, che non basta più. Oggi la decisione sugli archivi del 1922-1945 è nelle mani di Benedetto XVI. Egli può rinviare, che è un modo per non fare: ha affermato il dovere di rammemorare la Shoah alla nuova generazione, cattolica e non; e potrebbe fermarsi lì. Il Papa potrebbe invece aprire l’Archivio segreto, affidato a un prefetto stimato e rigoroso come padre Sergio Pagano, lasciando campo aperto alla ricerca storica. Ratzinger, studioso per professione, sa che la mancanza di carte alimenta il duello fra i polemisti che accusano Pio XII di avere «la» responsabilità della Shoah e il partito che ne vuol fare l’improbabile prototipo dei Giusti; sa che dall’insieme delle carte verrà un ritratto storico complesso, emergeranno le contraddizioni di una grande amministrazione, si abbozzeranno giudizi metodologicamente articolati. Questa opzione inciderebbe sul suo magistero. Parlando in sinagoga Benedetto XVI ha evitato ogni accenno al pentimento della Chiesa tedesca o di quella universale. In una Germania che in questi giorni ricorda il memorabile processo di Francoforte del 1965 (il primo celebrato da giudici tedeschi contro le SS di Auschwitz), nella Chiesa che aveva anticipato e accolto il «mea culpa» del Giubileo, la scelta ratzingeriana non poteva passare inosservata, anche se il garbo ha consigliato di non sottolinearla, in attesa che l’avvenire dica se essa è un segnale o un episodio. L’apertura degli archivi vaticani, quando verrà, illuminerà sì le scelte di Pio XII, ma soprattutto aiuterà a capire che l’antisemitismo cristiano aveva impregnato qualcosa di molto profondo: e chi li aprirà dovrà nuovamente misurarsi con il nodo del peccato nella Chiesa, del peccato della Chiesa.