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17 Dicembre 2007

Diamanti: “Italia ferma? La colpa è della politica”

Autore: Pierangelo Sapegno
Fonte: La Stampa

Ma che Italia ci aspetta nell’anno che viene? In questo Paese, definito
triste dal New York Times, percorso da ribellismi, malcontenti e nuove
povertà, qual è l’alba che si avvicina? Secondo Ilvo Diamanti,
professore di Scienze politiche a Urbino, «è difficile che ci venga
incontro un’Italia diversa da quella che conosciamo. E’ un Paese che
non sa che Italia l’attende. Non ha un’idea precisa del futuro. E’ una
fase, forse la prima del dopoguerra, in cui il Paese non ha una
missione condivisa. L’assenza di questa missione comune rende i nostri
punti di forza, quelle che erano le nostre prerogative, una debolezza.
Noi siamo sempre stati il Paese delle cento città, del familismo, della
centralità della famiglia, un Paese fatto di differenze, ma dove le
differenze sono sempre state un elemento di unità. In passato, abbiamo
sempre avuto missioni condivise. Pensi al dopoguerra, la ricostruzione».

Adesso tutto questo non succede più. Ma perché?
«Noi
abbiamo avuto tre fasi. La ricostruzione. Poi la rincorsa, la
modernizzazione, il benessere, la costruzione dell’eguaglianza sociale,
le grandi riforme. L’ultima fase, in cui c’è stata una scelta comune, è
quella tra il ’91 e il ’97, quando è crollata la prima repubblica e ci
siamo rimessi a ricostruire. Si pensi solo allo sforzo comune profuso
in tasse, Finanziarie e sudore per entrare in Europa. Senza protestare».

Qual è la differenza rispetto a ieri? Cosa accade di diverso?
«Adesso
non c’è più un cemento che tiene insieme gli sforzi di settori diversi.
Il nostro piccolo è bello solo per ciascuno di noi, ma entra in
conflitto con gli altri. Ci manca un senso comune, un’identità comune.
C’è una molteplicità di autonomie molto blindate e gelose dei loro
confini».

E’ per questo che siamo tristi?
«Il ritratto del NY
Times coincide in larga misura con quello che noi diamo di noi stessi.
Ma sbaglia. Nella Ricerca sugli italiani e lo Stato fatta per
Repubblica, l’88 per cento del campione dice che siamo felici. Ma
felici nel loro piccolo, nel privato, nel contesto familiare. E
insoddisfatti appena alzano la testa, soprattutto se la rivolgono verso
le istituzioni e la cosa pubblica. Gli sforzi sono tutti concentrati su
quello che li divide».

E cos’è che li divide?
«Ad esempio le
Province. Sono aumentate di un quarto in 25 anni. Il localismo. Oggi
tutti si rappresentano attraverso piccole cerchie professionali:
tassisti, camionisti, controllori di volo, farmacisti. L’Italia dei
microgruppi che esprime difficoltà a dialogare con gli altri».

Questo, secondo lei, facilita una vena di ribellismo?
«E’
evidente che in una situazione di questo genere, si produce una
mobilitazione di tipo difensivo o di protesta. Non c’è più
mobilitazione su grandi temi di valore. Assistiamo a una società che è
forte nel suo piccolo, abbiamo mille proteste locali, un’energia che
non riesce a essere canalizzata. Per di più, ci ritroviamo in un Paese
dove il senso di slittamento a livello sociale è molto evidente. Il 32%
del ceto medio si vede in declino e il 44 della classe operaia
percepisce la propria condizione in peggioramento. Tutto questo genera
un disagio collettivo».

E la politica ha delle colpe?
«La
politica e le istituzioni alimentano questa sindrome da deficit di
futuro. Nella nostra indagine, 9 su 10 hanno detto che ci vorrebbe un
uomo forte, ma non un dittatore. Vogliono qualcuno dotato di autorità».

Per rimettere insieme i cocci, tutte le differenze?
«Per
rimettere insieme queste minoranze dominanti che rappresentano il
nostro Paese. Perché i nuovi partiti della seconda repubblica hanno
fallito: non hanno dato l’idea di fornire cornici comuni. Ci hanno
lasciato così. Ci sentiamo privi di senso».