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9 Ottobre 2006

Delitto Fortugno, i misteri degli intrecci politici

Autore: Giovanni Bianconi
Fonte: Corriere della Sera

La chiave che ha aperto alcuni segreti del delitto Fortugno è nelle parole di un pentito. Ha indicato i nomi del killer, dei suoi complici e del mandante dell’uccisione del vice-presidente del Consiglio regionale della Calabria, medico ed esponente della Margherita.

L’hanno ammazzato un anno fa, il pomeriggio del 16 ottobre 2005, davanti al seggio dove si svolgevano le elezioni primarie dell’Ulivo, nel centro di Locri, terra di ‘ndrangheta e di politica mescolata al crimine e agli affari.

Oggi sarà lì il capo del governo, Romano Prodi, per ricordare la vittima di un «giallo» che probabilmente non ha ancora trovato la soluzione finale.


Il pentito che ne ha svelato i dettagli «operativi» si chiama Domenico Novella, un trentenne vicino alla famiglia mafiosa locale dei Cordì. Appena fu accusato di aver partecipato all’omicidio di Francesco Fortugno disse di voler collaborare con la giustizia.

Fornendo un particolare fino a quel momento sconosciuto: l’auto utilizzata per l’agguato mortale. I pochi testimoni avevano parlato di una macchina scura, e nessuno collegò al delitto la Uno bianca trovata abbandonata a poche centinaia di metri dal seggio elettorale, parcheggiata di traverso e con i fari accesi, rubata la mattina di quel giorno.

Ma il pubblico ministero volle tenerla a sua disposizione, finché sei mesi più tardi il pentito spiegò che il killer di Fortugno aveva usato proprio una Uno bianca, presa quel giorno e «buttata» subito dopo il delitto.


Gli occhi del pm s’illuminarono, fece controllare le impronte digitali sull’auto conservata, non se ne trovò nessuna, nemmeno dei proprietari: una stranezza che fa pensare a una «ripulitura» in vista dell’uso che dovevano farne i ladri.

Siccome il giovane Novella non poteva sapere della Uno trovata dagli inquirenti, per i magistrati è un particolare di «straordinario rilievo» che garantisce «l’assoluta genuinità» del pentito.


Secondo Novella, a sparare a Fortugno è stato Salvatore Ritorto, un giovane di 27 anni comandato da Alessandro Marcianò, detto «Celentano» per una vaga somiglianza col cantante, cinquantacinquenne caposala dell’ospedale di Locri di cui Fortugno fu primario, nonché organizzatore di campagne elettorali, prima per la Democrazia cristiana e poi per i diversi rivoli in cui si sciolse il vecchio scudo crociato.

Margherita compresa. Coinvolto nel delitto anche il figlio di Marcianò, Giuseppe, già incappato in altre storie di armi e droga. Novella li accusa, loro si proclamano innocenti, ma il giudice che li ha arrestati e il tribunale della libertà che li ha lasciati in carcere hanno creduto al pentito.


Siamo ancora nella fase delle indagini preliminari, non c’è nemmeno la richiesta di rinvio a giudizio, ma un foglio che si fa vanto del proprio garantismo ha scritto che «è stato identificato l’assassino».

Curiosa certezza, per chi dubita perfino delle condanne pronunciate in Cassazione. Ma tant’è. Mancano invece «mandanti e motivazioni», lamentava il quotidiano.

Tralasciando che un mandante è proprio il «dipendente dell’ospedale di Locri» bollato come assassino. E che qualche motivazione politico-affaristica compare anche nelle carte che lo tengono in galera.


Il pentito «genuino» conosce il movente che gli hanno riferito, un possibile ricatto esercitato da Fortugno su Ritorto e Marcianò. Ma lui stesso lo liquida come «una scemata». Poi aggiunge che la famiglia di ‘ndrangheta che comanda a Locri, i Cordì, nulla sapeva del progetto di omicidio.

E questa è «una scemata» secondo i magistrati, perché «cozza con una logica frutto di una conoscenza e un’esperienza lunga, consolidata e a piene mani riscontrata delle dinamiche criminali vigenti nel nostro tristemente tartassato territorio»: niente succede a insaputa dei capimafia, figuriamoci un omicidio tanto dirompente.

Del resto, «Celentano» è stato compare d’anello di un Cordì, e secondo l’accusa aveva più di un interesse a togliere di mezzo Fortugno che alle regionali aveva scalzato il suo candidato Domenico Crea, recente acquisto della Margherita calabrese dal centrodestra. Crea non fu eletto per un pugno di voti, mentre Fortugno «aveva fatto il pieno», come si dice, grazie all’appoggio del presidente della Giunta Agazio Loiero.

Alessandro Marcianò, sostengono i giudici, deteneva un «potere clientelare personalmente gestito proprio in funzione del rapporto instaurato con il Crea», venuto a mancare con l’estromissione del proprio uomo dalla politica regionale.

E il delitto compiuto davanti al seggio dell’Ulivo doveva rappresentare «un messaggio dimostrativo per gli elettori di un certo schieramento che erano stati dei “traditori” per il Marcianò e per coloro che il Marcianò supportavano».


Dopo l’omicidio la vedova Fortugno — Maria Grazia Laganà, oggi deputata della Margherita — aveva confidato ai magistrati di avere «sospetti non sull’individuo, sul candidato, ma sui contorni che potrebbero esserci…».

Il pm chiese se si riferiva all’entourage di Crea, e la donna rispose di sì. Sospetti che in mano ai giudici son divenuti indizi di tale gravità da far scattare gli arresti.

Se e quando ci sarà un processo, agli atti finiranno pure le intercettazioni telefoniche tra Marcianò e Crea, precedenti all’omicidio, dove si fanno commenti tutt’altro che lusinghieri nei confronti di Fortugno. Letti dopo, suonano oltremodo spiacevoli.


Ma possono servire a disegnare un «contesto», non certo diventare la prova di alcunché.

Per l’accusa il «favorito» Crea poteva ben essere inconsapevole di quello che Marcianò avrebbe orchestrato e realizzato nel proprio interesse.

Ecco perché, nonostante il «contesto», l’onorevole è rimasto ai confini delle indagini, e siede tuttora sul seggio toccatogli in eredità dopo l’assassinio di Fortugno.

Un «giallo» con un presunto killer, due o tre complici, un mandante e un possibile movente politico di basso profilo, se così si può dire. Restano sullo sfondo, e ancora da scoprire, responsabilità mafiose e intrecci politici di più alto livello. Se ci sono.


Tutto questo troverà Prodi al suo ritorno a Locri dopo il funerale cui partecipò un anno fa. Allora candidato premier e oggi presidente del Consiglio di una coalizione che in Calabria continua a dividersi internamente e a dar vita a curiose alleanze.

Come quella verificatasi alle scorse elezioni provinciali, quando la vedova Fortugno e il consigliere Crea si trovarono a sostenere la stessa lista tra le due messe in campo dalla Margherita.