9 Settembre 2005
D’Alema in America
Autore: Federico Geremicca
Fonte: La Stampa
Massimo D’Alema è in partenza per gli Stati Uniti. Ancora un paio di importanti uscite pubbliche in Italia, poi via a New York (assieme a Prodi) su invito di Clinton per l’inaugurazione della Clinton Global Initiative. Troverà un’America sotto choc per l’uragano Katrina, e soprattutto per quel che è accaduto dopo. Anche D’Alema appare turbato.
«L’11 settembre – dice – rivelò la vulnerabilità militare degli Stati Uniti; quanto accaduto a New Orleans ci sta mostrando la fragilità sociale di quel Paese. Spazzato via il potere coercitivo dello Stato, l’unica forma di organizzazione sociale emersa sono le gang che uccidono e saccheggiano».
Fa una pausa. «C’è una cosa che voglio dire, sperando di evitare fraintendimenti: cose così, in Italia, in Europa, sono impensabili. Di fronte alle tragedie gli italiani si sono sempre uniti. Ci sono livelli e forme di solidarietà forti e vive.
E guardi che non lo dico io. Ricordo che una volta, complimentandomi con Bill Clinton per i dati di crescita della ricchezza nel suo Paese, mi sentii rispondere: “E’ vero che da noi c’è ricchezza e dinamismo, ma i Paesi in cui le aspettative e la qualità della vita sono più alte sono i Paesi europei. Io mi vergogno, per esempio, di non poter garantire assistenza sanitaria a 60 milioni di persone”…».
Ma prima di New York c’è da archiviare questa velenosa estate italiana per guardare al futuro. E D’Alema dice la sua, come sempre con nettezza. Considera la divaricazione apertasi tra Casini, Follini e il centrodestra seria e strategica, degna d’attenzione. Annuncia che la legge elettorale va davvero riformata e crede che l’Unione, se andrà al governo, dovrà porre il problema e cercare le necessarie intese.
Punta di nuovo l’indice contro le velenose polemiche agostane e le considera il frutto sgradevole della competition e dell’abbandono da parte della Margherita del progetto dell’Ulivo. E circa la discussione avviatasi intorno all’elezione del futuro presidente della Repubblica, definisce appartenente ad un’altra epoca – ed a una logica superata – il ritorno, invocato da qualcuno, al metodo dell’alternanza tra laici e cattolici al Quirinale.
Cominciamo dalla legge elettorale, signor presidente?
«Potremmo liquidare il discorso in due battute: non ci sono né le condizioni politiche né i tempi per una riforma. Le condizioni dovrebbero essere quelle di una larga condivisione, mentre qui non c’è accordo nemmeno nella maggioranza di governo. E per quanto riguarda i tempi, credo che ormai parliamo di una ventina di giorni di attività parlamentare a disposizione. Dunque, mi pare più una questione di messaggi all’interno della maggioranza. Ed è un peccato, perché credo che il problema esista. A cominciare dal fatto che abbiamo sei sistemi elettorali diversi»
Quindi, ritiene che – nel merito – non sia infondata la questione posta dall’Udc?
«Ma dovrebbe essere affrontata con serietà e senza confusioni. La soluzione per una legge elettorale efficace e adatta alla realtà del nostro Paese era stata trovata, con quello che fu sprezzantemente definito il “patto della crostata”: di cui tutti ricordano la crostata, che non c’era, mentre nessuno ricorda il contenuto, che era piuttosto interessante. L’idea era quella di una legge elettorale maggioritaria di coalizione a doppio turno, che avrebbe garantito stabilità senza eliminare il pluralismo dei partiti, ma sbaraccando il mercato dei collegi. Era un discorso serio e utile al Paese. Fu impedito da molte forze che scesero in campo per impedire quell’accordo».
In realtà fu Berlusconi che si tirò indietro all’ultimo momento, no?
«Ci fu il voltafaccia di Berlusconi, ma anche un’aggressione esterna. Non dimentichiamo l’atteggiamento di parte del mondo dell’informazione. Magari qualcuno temeva che il sistema politico si rafforzasse davvero. Diciamo che questo è tipico dell’Italia: c’è una critica costante verso la politica da parte di ambienti economici e intellettuali, ma nel momento in cui essa può rafforzarsi, ci si coalizza per impedirlo. In quell’occasione facemmo i conti con la miopia politica di Berlusconi, ma potemmo anche apprezzare quanto erano forti gli interessi in campo. Penso ai poteri economici, che quando agiscono così dimostrano di essere poteri deboli e per questo hanno bisogno di una politica condizionabile. Detto questo, il problema di una riforma delle leggi elettorali permane».
Crede che, se l’Unione vincesse le elezioni, dovrebbe lavorare a questa questione?
«Io penso di sì. E’ un problema sul quale aprire una riflessione seria con tutti, ragionando anche sugli effetti prodotti da questa legge elettorale. Da una parte c’è stata un’acquisizione positiva, il bipolarismo che ha portato all’alternanza delle classe dirigenti, alla possibilità di scegliere direttamente da chi si è governati: e questo ci ha avvicinato alle grandi democrazie europee. Dall’altra, non si è posto rimedio alla frammentazione, che porta con sé tensioni e inutili risse. Abbiamo costruito un modello italiano di bipolarismo frammentato e litigioso, che chiaramente non funziona. Allora, il rimedio è certamente nei processi politici, ma anche in un’intelligente rivisitazione delle regole del gioco. Dunque, rispetto al dibattito in atto, dico: difendere il bipolarismo, come io faccio con convinzione, non significa difendere questo tipo di bipolarismo e non vedere gli elementi di verità che ci sono nelle critiche ad esso mosse. Il sistema non funziona. Il Grande Centro, naturalmente, è un rimedio peggiore del male… Ma non c’è dubbio che alcune critiche siano motivate».
C’è chi considera l’iniziativa assunta da Casini e Follini esclusivamente tattica. Lei giudica sbagliata la scelta dei tempi. Il fatto è che ora si ipotizza uno «strappo» addirittura elettorale tra l’Udc e la Casa delle Libertà. Lei ci crede?
«Lo ritengo molto difficile, ma non penso si possa escludere. E probabilmente nell’animo dei dirigenti di quel partito oggi ci sono tutte e due queste possibilità. Ma più che gli esiti possibili, mi interessa capire qual è il problema vero. E credo che il problema sia nel fatto che, a conclusione di questa esperienza di governo, è emersa una frattura profonda nella destra italiana. Noi abbiamo avuto, attorno a Berlusconi – e questo è stato anche il suo maggior successo – il comporsi di una destra moderata conservatrice (che nel nostro Paese è soprattutto di matrice cattolica, anzi, che rappresenta una parte del mondo cattolico che è politicamente diviso) e di una destra populista con pulsioni antieuropee…».
Non è cosa solo italiana, no?
«Non è un fenomeno solo di casa nostra, è vero. Ma la collaborazione è stata difficile ovunque. In Austria c’è stata un’esperienza, in Francia – pur con la presenza di Le Pen – invece no. Questo rapporto, da noi, è sostanzialmente fallito perché le componenti moderate sono state egemonizzate e perché Berlusconi personalmente ha fatto pendere la bilancia dalla parte del populismo. Quella che si è aperta, quindi, mi pare una divaricazione profonda, strategica. Non un fatto tattico, ma una cosa seria: e mi pare sbagliato ridurre il tutto a un giochino. L’esito di questa divaricazione, nel medio periodo, può essere duplice: o si riarticola il sistema politico determinando una situazione di tipo francese, cioè con un centrodestra moderno e moderato che si separa dalla componente populista; oppure, dopo la sconfitta di Berlusconi, se sarà sconfitto, l’egemonia passa a queste componenti moderate. Ma ripeto: quello venuto alla luce è un contrasto vero, che non si risolve con l’escamotage della legge elettorale, perché il problema è politico. E poiché sono per un bipolarismo mite e credo sia nell’interesse del Paese il ricomporsi del centrodestra intorno ad un asse più moderato, trovo interessante la battaglia che stanno facendo Casini e Follini. Io ho rispetto personale vero per Casini, Follini e Tabacci, che hanno opinioni diverse dalle mie ma che certamente rappresentano un pezzo importante della cultura politica del Paese».
Lei proietta gli effetti di questa divaricazione in là nel tempo: il presidente De Mita sostiene, invece, che se l’Udc si presentasse alle prossime elezioni come terzo polo, questo avrebbe un effetto anche sul centrosinistra. Condivide?
«Se l’Udc compie uno strappo, in sostanza significa che fa un investimento sul futuro… Contemporaneamente, però, diventa evidente che c’è in campo una sola proposta di governo: la nostra. In più, onestamente, io non lo vedo tutto questo mondo centrista in movimento. Penso che un terzo polo che si colloca nella sfida tra noi e la Casa delle Libertà possa aspirare al massimo al 12, ed è una previsione dello stesso Mastella. Parliamoci chiaro: se nel 1994 la Dc – perché quello erano il Ppi più il Patto Segni – non vinse in nessun collegio, dubito che Casini e Follini possano fare meglio. Quindi, per tornare a De Mita: ha ragione, si potrebbero avere degli effetti sull’Unione. E’ possibile, perché quel polo avrebbe una certa forza d’attrazione, ci sarebbe un richiamo identitario: ma le dimensioni del fenomeno non sarebbero tali da cambiare i dati del confronto bipolare. Poi, guardi: tutta questa storia del Centro è importante se contribuisce a rendere più civile e europeo il bipolarismo italiano. Se invece punta a scardinarlo, si rivelerà non solo dannosa ma anche velleitaria, perché il bipolarismo è entrato nella coscienza del Paese».
Sarà, come dice lei: ma già si sussurra di forze di centro che dovrebbero soccorrere il possibile, futuro governo Prodi in caso di guai. C’è chi dice che parlare di Grossa coalizione, per esempio, significa già da ora ragionare sul dopo-Prodi. E’ preoccupato di questo?
«Noi dobbiamo lavorare per dare una prospettiva di grande forza al governo Prodi. Lo dico per il bene del Paese. Infatti, non riesco e non voglio immaginare, nella situazione in cui siamo, due o tre anni di instabilità. Il compito della politica non è il chiacchiericcio sul dopo-Prodi, che è cosa di un cinismo intollerabile. A noi tocca rafforzare Prodi, e le primarie – per esempio – sono un passaggio importante in questo senso, perché tanto più lui è forte, tanto più può costruire un’unità solida. E dopo le primarie, bisogna lavorare a un programma che aumenti il grado di coesione dell’Unione. Vede, io ritengo che una parte delle nostre difficoltà – testimoniate anche dalla discussione confusa di quest’estate – derivino dall’impasse in cui siamo entrati dopo che è stato affossato un progetto politico che era la via maestra per rispondere ai problemi di questo nostro bipolarismo».
Affossato Quindi non crede più all’Ulivo e all’esperienza della Lista unitaria?
«Io ci credo. E non c’è dubbio che se fossimo andati verso le elezioni con Prodi alla guida delle liste dell’Ulivo – cosa che avrebbe reso superflue anche le primarie – oggi saremmo già in piena discussione programmatica, avremmo dato alla crisi del Paese una prima forte risposta e saremmo impegnati, più che a sviluppare i fattori di competizione, a costruire gli elementi di una visione comune. Non è che voglia piangere sul latte versato, per altro non da me: ma non c’è il minimo dubbio che tanti elementi di confusione, diciamo, derivino anche dal fatto che questa prospettiva unitaria sia stata accantonata. Si è aperta una fase molto più incerta. Ma ora dobbiamo uscirne».
C’è chi sostiene che la competizione tra Ds e Margherita possa perfino creare danni alla coalizione. Si dice: quando partiti alleati si lanciano accuse sulla questione morale, che deve pensare il cittadino elettore?
«Non c’è dubbio che sia così, lei sfonda una porta aperta. Occorre che tutto questo si arresti. E fortunatamente parliamo di qualcosa che nei suoi aspetti più virulenti è alle nostre spalle. Guardi, sono stati fatti degli studi da istituti americani sugli effetti della pubblicità negativa, che lì è ammessa, a differenza che in Italia. Hanno accertato che la pubblicità negativa (hanno studiato un caso concreto, tra produttori di biscotti) danneggia tutti: cioè, se tu bombardi l’opinione pubblica dicendo che i biscotti di quell’altro sono fatti con sostanze che fanno male, si diffonde il sospetto che tutti i biscotti facciano male. E il danno investe tutto il mercato. E così è in politica. Persino tra avversari. Figuriamoci tra alleati…».
A proposito di alleati: l’onorevole Parisi candida De Mita al Quirinale, c’è chi sussurra che occorra tornare alla regola dell’alternanza tra presidenti laici e cattolici… Che le pare?
«Credo che all’indomani delle elezioni vada ricercata una personalità che sappia parlare al Paese, perché non c’è soltanto da pensare agli equilibri politici… Questo fu il criterio che adottammo quando convergemmo su Carlo Azeglio Ciampi: una personalità in grado di avere un rapporto con il Paese, perché il Capo dello Stato è anzitutto il riferimento per una tenuta e un ampliamento della fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Questo ha saputo essere Ciampi, e questa è stata la sua forza. La sua esperienza rimane un punto di riferimento. Detto questo, non vedo altri criteri. Francamente, le logiche di cui lei mi dice mi paiono logiche del passato, rispondenti a equilibri del passato. Parliamo di un’altra epoca, c’era il partito dei cattolici, un altro sistema politico… Ciampi ha avuto uno straordinario rapporto con la Chiesa e affetto personale e ricambiato con il Papa: non mi pare che il mondo cattolico non si sia sentito rappresentato al vertice delle istituzioni. Diciamoci la verità: la regola dell’alternanza appartiene al mondo che fu…».