Esiste un´insanabile contraddizione tra la versione della pattuglia americana in perlustrazione lungo l´autostrada per l´aeroporto di Bagdad e il racconto del nostro agente segreto sopravvissuto alla sparatoria che ha ucciso Nicola Calipari. Gli americani dicono: l´auto arriva a gran velocità; non si ferma all´alt; continua la sua corsa anche dopo la raffica sparata in aria. Il nostro agente, confortato dal ricordo di Giuliana Sgrena, corregge: viaggiamo a non più di 40 chilometri orari; non ci è intimato lo stop; ci accecano con un faro e, nello stesso istante, cominciano a sparare; dopo, ci chiedono scusa. La seconda conferma, che si ricava dalle parole di Fini, riguarda noi italiani, le nostre mosse. Trattiamo con i sequestratori, paghiamo un riscatto. (Chiedono al ministro: è stato pagato un riscatto? Fini non nega. Risponde, accorto: «Abbiamo seguito le vie diplomatiche, politiche, di intelligence»).
All´aeroporto non informiamo gli americani che Calipari è a Bagdad per riportare in Italia l´ostaggio. (Dice Fini: «Si comunica la presenza per ottenere le agevolazioni del caso, non l´obiettivo della nostra presenza»). La ricostruzione del governo ha dunque due cardini. Gli americani mentono. Noi abbiamo nascosto agli americani la nostra attività. Nello sbrogliare questa doppia menzogna può esserci il senso dell´intervento di oggi al Senato del presidente del Consiglio. Che sarà più imbarazzato dall´affrontare la seconda (la nostra menzogna) che non la prima. Ecco perché.
Per il nervosismo dei soldati americani, i check point a Bagdad sono pericolosi quanto, per la minaccia dei kamikaze, le caserme della polizia irachena. Si muore per caso. Il Pentagono è da tempo sotto pressione per l´assoluta incapacità delle truppe, spesso inesperte, ad assolvere questo compito di controllo del territorio. Il New York Times di ieri, per fare un esempio, è molto severo con le regole di ingaggio. Il giornale osserva che l´assalto a Calipari «non è un caso isolato». Ricorda che in gennaio due genitori iracheni sono stati crivellati di colpi a un posto di blocco davanti agli occhi dei quattro bambini che viaggiavano con loro in auto. Entrambi i casi, «e presumibilmente altre centinaia», dimostrano – conclude il Times – che i civili iracheni «non devono vivere solo nel terrore dei kamikaze e dei ribelli mascherati, ma devono aver paura anche di essere scambiati per ribelli da forze americane sul chi vive, a cui è stato detto di sparare prima e poi chiedersi perché lo hanno fatto».
Gli americani dunque sanno (perdonate la brutalità) di avere un problema anche prima di venerdì notte. La morte di Nicola Calipari è, per loro, soltanto l´ulteriore conferma che il problema va affrontato al più presto e finalmente. Però, gli italiani – proprio loro – non possono alzare più di tanto la voce perché si sono messi nei guai da soli. Si sono messi in una situazione di pericolo per le loro doppie intenzioni. Tacciono della missione. Non chiedono all´alleato alcun sostegno né logistico né tecnologico né militare. «Scelgono il basso profilo» (Fini). Mascherano la missione con un´azione di routine (il movimento di un funzionario d´ambasciata). Va detto che per Calipari è una scelta fottuta, ma obbligata. Gli alleati non devono sapere dell´ostaggio. Un paio di settimane fa, le forze della coalizione credono di aver individuato la prigione di Giuliana. Propongono a Roma l´intervento della Delta Force. Garantiscono «al 75 per cento» un esito non cruento per l´ostaggio. Gianni Letta non se la sente. La percentuale di un rischio mortale è troppo alta. Non se ne fa niente. Si imbocca la fase conclusiva della trattativa e del pagamento del riscatto.
La mossa determina tutti i passi successivi di Nicola Calipari. L´agente si impegna con i sequestratori ad arrivare da solo sul luogo di consegna. Con un´auto presa a nolo. Nessun rivelatore di posizione (Gps). Nessuna scorta. Nessun contatto con gli americani. Nessun allarme in ambasciata (dove pure il maggiore che l´accompagna ha amici fraterni nel Ros dei carabinieri di cui ha fatto parte). Di più. Subito dopo, Calipari corre verso l´aeroporto per superare altri due ostacoli. Se si fosse trattenuto in ambasciata, alla notizia della liberazione di Giuliana Sgrena, gli americani avrebbero voluto interrogarla per strapparle un´indicazione, una traccia, un indizio che potesse avvicinare le special forces agli uomini della banda. E, dopo gli americani, con le stesse domande, si sarebbero fatti sotto gli uomini del governo iracheno, titolari legittimi dell´inchiesta. Forse nel patto stretto con i sequestratori Nicola si è impegnato a evitare un interrogatorio dell´ostaggio. Forse crede che un de-briefing iracheno-americano di Giuliana minerebbe l´affidabilità della sua mediazione in trattative future. Così è costretto a tagliare la corda più rapidamente possibile. Fino a quell´improvvisato e assassino check-point predisposto per proteggere il passaggio dell´ambasciatore Negroponte.
In queste condizioni Berlusconi può davvero chiedere conto a Washington della morte di Calipari? O al contrario (come sembra anticipare il colonnello Barry Veneble, portavoce del Pentagono) sarà Washington a chiedere ragione a Berlusconi di un comportamento obliquo che aggira le regole della coalizione, accettate anche dal governo italiano o comunque mai contestate? La questione (ci si augura che il premier voglia affrontarla) interpella il metodo che abbiamo scelto per risolvere le crisi degli ostaggi. Trattiamo e paghiamo. La politica della trattativa, mai pubblicamente né discussa né confermata, costringe – da un lato – gli agenti come Nicola Calipari in un vicolo strettissimo dove devono muoversi senza alcuna rete di protezione; dall´altro, produce strappi e smagliature a un corretto e limpido processo decisorio. Pagare i sequestratori è illegale. Vietato dalla legge che punisce «chi si adopera con qualsiasi mezzo per far conseguire agli autori del delitto il prezzo della liberazione della vittima» (legge n.82, 15 marzo 1991, art. 1, comma 4). Per aggirare il divieto, Gianni Letta, il paziente solutore di problemi, coinvolge ufficiosamente nella decisione i possibili controllori delle scelte del governo. Informa i leader dell´opposizione (Fassino e Rutelli) dell´opzione scelta. Dà comunicazione, informale, al comitato di controllo parlamentare di Enzo Bianco. Convoca a Palazzo Chigi finanche il pubblico ministero Franco Ionta, coordinatore del pool antiterrorismo della procura di Roma. Tutti sono al corrente che una trattativa è in corso e presto sarà pagato un riscatto. Svaniscono ruoli, funzioni e compiti. Chi deve vigilare (dentro e fuori il Parlamento) su una decisione che spetta in autonomia al governo la condivide diventando il silente co-protagonista. Gli esiti, una volta risolta la crisi, sono ancor più nebbiosi. Gli ostaggi devono confermare la versione costruita dal governo. Così Maurizio Scelli, un privato cittadino, interpreta per il pubblico, e soprattutto dal salotto di Porta a Porta, il ruolo di “liberatore ufficiale”. E´ la sua parte in commedia. Simona Torretta conferma. Lo conferma anche a quei magistrati che hanno condiviso con Letta la decisione di pagare il riscatto. Poi uccidono Nicola e Simona ammette che è stato Calipari, l´agente segreto, a risolvere il sequestro. Scelli ammette.
L´assassinio di Nicola Calipari ha screditato il sistema. E´ un discredito che può essere salutare. Finalmente possiamo discutere all´aria aperta delle nostre scelte strategiche. E´ conveniente pagare i sequestratori? Questa pratica può renderci più esposti alle aggressioni? Crediamo di poter assumere la responsabilità di finanziare con il prezzo del ricatto (a quanto pare, finora, più o meno quindici milioni di dollari) bande di criminali o frange della resistenza o gruppi terroristici?
Si può decidere che non è più tempo di «fermezza», naturalmente. A quanto pare, un larghissimo fronte politico e d´opinione ritiene la trattativa e il riscatto una buona soluzione del problema. Bene, ma perché lasciar scivolare una decisione – in ipotesi, largamente condivisa – tra gli arcana imperii? Si modifichi la legge. Non lo si vuole fare. Troppo macchinoso. Si proteggano quelle operazioni con il segreto di Stato prevedendo più adeguate procedure di controllo da parte del comitato parlamentare. In ogni caso, si renda esplicita la nostra politica e chi deve governarla. Eviteremmo i «misteri italiani» (sempre forieri di altri guai), qualche vertigine istituzionale, le menzogne dei poveri ostaggi, le sconnesse rappresentazioni mediatiche. E forse potremmo anche guadagnare un maggiore rispetto di noi stessi e degli altri. La morte di Nicola Calipari impone che questi temi siano affrontati alla luce del sole. La speranza è che oggi cominci a farlo Silvio Berlusconi.