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4 Maggio 2006

Da banchiere a presidente di tutti

Autore: Edmondo Berselli
Fonte: la Repubblica

SE C´È QUALCOSA in cui è riconoscibile la personalità di Carlo Azeglio Ciampi è un progetto formatosi sul campo, attraverso prove che talvolta hanno sfiorato il dramma. Chi gli ha rimproverato talvolta un sovrappiù di retorica nazionale, o addirittura nazionalista, tende a dimenticare che la prova più aspra la affrontò da governatore della Banca d´Italia, in quell´autunno del 1992 in cui dal suo ufficio in via Nazionale tentò fino all´estremo di evitare la svalutazione della lira e la fuoruscita dal sistema monetario europeo.

Allora i suoi denigratori lo accusarono di avere sprecato decine di migliaia di miliardi in una difesa inutile. Lui, da quella disfatta, sotto il tiro della speculazione internazionale, cominciò a elaborare una visione politica.

Nasce probabilmente in quel momento drammatico il «metodo per governare» che avrebbe attuato l´anno dopo, chiamato da Oscar Luigi Scalfaro a guidare un governo di transizione al maggioritario che avrebbe posto le basi per il risanamento dei conti pubblici. Il «metodo» era la concertazione, l´idea che in una fase eccezionale fosse necessario il confronto continuo con le parti sociali. Per poi decidere, naturalmente, non per sopravvivere nella stagnazione, per galleggiare senza scopo.

Non si capisce a fondo la presidenza di Ciampi, se non si ha ben chiara questa concezione di un conflitto che deve essere regolato, sempre, presidiato da norme precise. E dunque la profonda fiducia nel ruolo equilibratore delle istituzioni, anche nei momenti in cui il contrasto politico sembrava raggiungere asprezze inedite. Ma alla salvezza di queste convinzioni si è unito anche un pensiero ulteriore, e cioè la profonda certezza che il Paese fosse assai più unito e solidale rispetto alle divisioni e alle durezze della «quasi guerra» che il bipolarismo aveva innescato.

Visitava l´Italia, si recava nelle città e nella provincia profonda, e si persuadeva che la politica era uno specchio almeno in parte distorsivo della vita civile. In Parlamento, fra i partiti, si assisteva a uno scontro quotidiano; sul territorio, a contatto con i sindaci, i prefetti, gli imprenditori, le élite locali, le rappresentanze sindacali, il presidente riscontrava una tonalità più moderata, certamente meno gridata, una decenza del confronto pubblico che lo rincuorava.

Ha confidato spesso che a suo giudizio l´Italia del suo settennato era una società molto più solidale di quanto non apparisse sulla scena romana. E non per una corriva distinzione fra la Repubblica dei partiti e l´Italia della gente. Ma piuttosto perché la sua formazione umana e culturale, la partecipazione all´esperienza della Liberazione, l´umanesimo degli studi, insieme con la passione lucida per il processo di unificazione europea, lo portavano a privilegiare nella visione gli elementi comuni, cioè che unisce più che ciò che divide.

Nello stesso tempo, si è misurato di continuo con il conflitto politico, ha respinto leggi di marca governativa, è stato tirato per la manica dall´opposizione, ha sentito appelli popolari che si rivolgevano a lui come ultima postazione di credibilità pubblica. Quindi è stato perfettamente consapevole dell´intensità dello scontro politico. E ha deciso che doveva trovare un altro «metodo», o una derivata del metodo, per mettere in equilibrio il conflitto intrinseco al bipolarismo con la coesione connaturata alla società del nostro Paese.

Si è proposto, in primo luogo, come protagonista e interprete di un principio di garanzia. Le parti politiche dovevano sapere che il conflitto doveva rientrare nei binari istituzionali, e la sua funzione era proprio quella di agevolare o addirittura dettare questo rientro. Ma evidentemente si è reso conto con molta rapidità che le istituzioni sono una realtà fredda, e che quindi fosse necessario affiancare alle regole, alle leggi fondamentali, ai principi costituzionali, qualcosa di più «caldo». Lo ha trovato dapprima in un complesso di simboli, quei segni che potevano avvicinare la nazione, addirittura la «patria», una parola desueta, a un sentimento popolare di adesione e di identificazione.

Ecco quindi l´enfasi sulla bandiera, sull´inno nazionale, sulle festività e le ricorrenze civili. Una simbologia che agli esordi poteva essere giudicata ingenua, ma che via via è parsa ridiventare patrimonio comune (soprattutto nei momenti emotivamente più coinvolgenti, e valgono per tutti i due attentati di Nassiriya). Sicché in breve il «metodo Ciampi», quello dell´eletto, non quello dell´elezione, gli ha attirato una popolarità sempre più viva. Perché in lui, nella sua figura, in quella compostezza così naturale, i cittadini hanno trovato un riparo dalla violenza quotidiana, espressa e inespressa, della politica.

E man mano che questa popolarità cresceva, il presidente stesso si è trasfigurato nell´emblema del proprio metodo. Bastava dire «Ciampi» per richiamare una somma di virtù che si concentravano sulla sua presenza immanente, rassicurante, razionalizzatrice. Ciò che ancora oggi sorprende è che le doti del presidente sono in fondo una specie di coincidentia oppositorum, un compromesso fra qualità opposte se non proprio contraddittorie. Un banchiere di Stato, ossia un tecnocrate, contraddistinto da una sentita inclinazione sociale. Un progressista ancorato ai valori della tradizione. Un azionista che non ha mai né nascosto né esibito la propria fede cattolica. Un uomo distante dalla politica ma senza disprezzo, e capace di comprendere e valutare i sacrifici che quasi sempre essa richiede alla semplicità e alla linearità dell´azione.

Non è un miracolo dunque ciò che è avvenuto in questi sette anni. E´ stato piuttosto una miscela virtuosa di tenacia intellettuale e di coerenza di comportamenti. In una Repubblica delle chiacchiere, di loquele ora aggressive ora insensate, il Quirinale ha parlato con i suoi atti, con il rigore dei gesti, con la dignità dei simboli. Senza mai apparire un alieno, un illuminista accecato dalla propria ragione, ma cercando invece di ripristinare in ogni fase del confronto politico le ragioni vere di una logica della convivenza.

Alla fine di un´esperienza, e prima ancora di un bilancio politico, verrebbe voglia di chiedersi che cosa sarebbero stati gli ultimi cinque anni di governo, senza il controllo e la verifica «silente ma non assente» del Colle. Ma forse conviene soprassedere, e prendere atto che ciò che si conclude non è soltanto un mandato istituzionale, ma il lavoro, anzi il servizio, di un uomo che per le istituzioni è stato il vertice della Repubblica. E che per i cittadini, per il popolo italiano, è riuscito anche a essere semplicemente «il presidente», di più, nel sentimento di tutti è stato semplicemente «Ciampi».