Costruire
il Partito democratico è una scommessa complicata. Questo lo sapevano
tutti. Quelli che ci hanno creduto e ci credono ancora. E quelli che
hanno scelto strade diverse. L’ambizione era grande. Prendere atto che
le vecchie identità non bastavano più. Unire persone con tradizioni
diverse e dar vita a una cultura originale, e a una forza che di quella
cultura fosse l’espressione. A quanti, segnalando l’esistenza di
differenze non banali, ragionavano di un percorso a tappe più simile a
una «federazione», si è risposto un anno fa che non era tempo per i
ripieghi.
Che serviva il coraggio della rottura. Il Pd era
maturo nella coscienza di tanti e ogni annacquamento o rinvio ne
avrebbe ridotto l’appeal. Tesi che mi avevano convinto. E spinto, come
moltissimi, a sostenere l’accelerazione di tempi e procedure. Non direi
che mi sono pentito. Un grande progetto ha bisogno di tempo. E di
tenacia e pazienza. Del resto diverse cose buone sono avvenute. La
valanga di voti alle primarie. Il confronto nelle commissioni su
manifesto dei valori, statuto e codice etico. La prossima nascita di
ottomila circoli. E altro ancora.
Allora cos’è che non va? Direi così. Si ha
l’impressione, o almeno ce l’ho io, che stiamo andando persino oltre
l’ipotesi della «federazione». Ma nel senso opposto a quel partito
nuovo che in tanti evocavano. Piuttosto la marcia impressa è quella di
una «confederazione» di parti. Dove le «parti» sono i pezzi organizzati
delle vecchie aree di partito o gruppi aggregati intorno a leadership
di riferimento.
Sullo sfondo resta la fase costituente. L’assemblea
dei delegati riunita a Milano. Gli organi esecutivi e direttivi
provvisori. La messa a regime dell’organizzazione sul territorio. A
vedere il bicchiere mezzo pieno sono un mare di cose. Una voglia di
fare che dimostra la vitalità del progetto. Ma allo stesso tempo
qualcosa manca. Piaccia o meno, manca. E questo qualcosa è proprio la
bandiera di quanti, un anno fa, volevano accelerare il processo.
Ricordate? Facciamo un partito diverso, mescolanza di storie. Una forza
che fa della trasversalità la sua matrice. Che vuole fondere le
tradizioni. Non la somma di Ds e Margherita più qualcos’altro. Ma un
vero processo costituente dove non conterà da dove si viene ma dove si
vuole andare, insieme.
Di nuovo ci avevo creduto. Mi pareva una scelta
arrischiata ma l’ho condivisa. Oggi l’impressione è che ce ne stiamo
allontanando, e anche a passi svelti. Per diverse ragioni. Indico le
due che mi paiono le più evidenti. La prima ha a che fare con la nostra
transizione e la spiego così. Come altri, vengo da un partito che tra
tanti limiti ne aveva uno più evidente degli altri.
Discuteva troppo. Eravamo un diabolico centro
propulsivo di riunioni, seminari, dibattiti. Dal vertice alle sezioni.
Personalmente l’ho sempre considerato un punto di forza. Ma capisco che
in molte circostanze fosse un peso e a volte una terribile perdita di
tempo. Ora, parlo per me.
Negli ultimi otto mesi credo di aver preso parte a tre o
quattro riunioni in tutto. Compresa l’assemblea di Milano e un paio di incontri nella mia città. Non è una critica.
È una presa d’atto. Forse la vita democratica di
questa nuova forza non è ancora a regime. Ma colpisce che le occasioni
di confronto, fatte salve le colonne dei giornali, i blog e le
neo-correnti, si siano ridotte anziché allargarsi. Certo, c’è in questo
la responsabilità di chi i luoghi del confronto politico avrebbe dovuto
favorire e di quanti, a fronte di un vuoto, ritengono preferibile la
via del richiamo ai «propri». Con l’effetto di rafforzare i confini di
prima anziché moltiplicare intrecci e fusioni. So bene che la
mescolanza è prima di tutto fatica, e anche qualche rinuncia alle
posizioni precedenti. Richiede lo spirito giusto e disponibilità verso
l’altro. Servono applicazione, luoghi, consuetudini.
Altrimenti viene naturale cercare ospitalità dove si è
accolti e riconosciuti. E tutelati. Direi che il riflesso è istintivo.
E noi, ad oggi, non abbiamo ancora un partito del tipo di quello
immaginato. Abbiamo una leadership forte, legittimata da tre milioni di
persone. E insieme a quella una ricchezza di personalità e leader che
riflettono altrettante biografie e percorsi politici. Ben vengano le
regole, dunque. Nella speranza che servano a fondare davvero il partito
nuovo. Con la sua ricchezza di associazioni e forum, con le sue
sensibilità e aree culturali. E naturalmente con la sua vita
democratica interna fatta di congressi, organismi e circoli. In assenza
di questa rete di energie e sedi, resteremmo con un leader legittimato
dal basso e una confederazione di personalità e storie. Il che non era
propriamente l’idea che ci aveva mosso. La seconda ragione attiene di
più al merito. In particolare ad alcuni di quei temi che sono al centro
del confronto di questi mesi. Lo dico così. Noi abbiamo accelerato la
nascita del Pd, nei tempi e nelle forme, senza sciogliere alcuni nodi
rilevanti della sua cultura politica. Li cito. Il valore e l’autonomia
della persona, l’indipendenza della scienza, la sfera eticamente
sensibile e la libertà di coscienza. Temi sui quali un gruppo di
persone e personalità ha promosso una lettera appello sulla laicità e
il Pd che non a caso in pochi giorni ha raccolto più di cinquecento
adesioni e che ci condurrà nelle prossime settimane a un primo
seminario pubblico.
All’indomani delle primarie su alcuni di questi nodi,
per colpa o merito dell’agenda istituzionale, si è prodotta un’altra
accelerazione. Quella della decisione politica. E alcuni nodi sono
venuti al pettine. Non che prima non vi fossero. Semplicemente noi
tutti avevamo scelto di rinviarli a dopo. Ma il «dopo» comunque arriva.
E di fronte a un deficit di elaborazione nel neonato Pd sono emerse due
risposte diverse. La prima dice, noi non siamo come i vecchi partiti.
Abbiamo una vocazione maggioritaria e non possiamo pretendere su temi
controversi di mettere tutti d’accordo. La novità, secondo questa
lettura, sarebbe in un partito post-ideologico. E anche
post-identitario. Una grande coperta che deve adagiarsi sulla società
italiana e cercare di rappresentarla limitandosi a sommare le sue
differenze. Chi si lancia alla ricerca dell’identità perduta, o
s’incaponisce a cercarne una nuova, sceglierebbe di recitare in una
pellicola in bianco e nero. Mentre il mondo ha mille colori e bisogna
avere l’umiltà di riconoscerlo. Ho riassunto con parole mie ma spero
senza tradire la sostanza. E però è una teoria che non convince.
Personalmente non credo possa esistere un partito a vocazione
maggioritaria senza una cultura solida. Che non è la Tavola della
legge. E meno che mai un vademecum parlamentare. Ma è una «visione»
dell’economia, della società, degli individui. È una lettura dei fatti
del mondo, e non con l’occhio dello storico o dell’antropologo (anche,
ma non solo). Direi con lo sguardo della politica, che per definizione
è un combinato di valori e iniziativa. E che è ancora, o dovrebbe
essere, scelta delle urgenze e delle alleanze. Insomma con chi stai e
per cosa ti batti. Invece l’impressione, almeno fin qui, è che la
nostra prima preoccupazione sia stata di metodo. Davanti ai problemi,
la priorità era affermare che discutere si può e che nella nuova casa
devono convivere opinioni anche distanti. Il che è sacrosanto, al punto
che su questa premessa abbiamo fondato un partito. Ma appunto un
partito, non una confederazione di culture separate. E dunque, prima o
poi, dovremmo passare dall’elogio del
dialogo alla chiarezza di alcune definizioni.
Il documento di Reichlin e Ceruti ha il merito di
provarci, e già per questo è un’operazione apprezzabile. Ma giocoforza
sarà la dimensione politica, saranno le scelte legislative, sarà la
coerenza della rotta culturale a definire l’identità effettiva delle
Democratiche e dei Democratici. Insomma sarà quella battaglia delle
idee che sola qualifica il pluralismo. L’alternativa, almeno a me, non
convince. Perché finisce per essere un non-partito.
Nel senso che a rimanere in campo sarebbe la forza
delle «piccole identità». Appunto quelle “parti” organizzate che
nessuno chiama correnti anche se tutti sanno benissimo che di quello si
tratta. «Parti» che medieranno, come in altre stagioni e contesti, gli
equilibri interni, le rappresentanze, un pacchetto di destini
individuali. So che la politica è anche questo. Ma se a prevalere è
soprattutto questo è inevitabile il primato di oligarchie ristrette con
tutto quel che ne consegue. In quel caso non faremmo molti progressi
sulla strada di un partito nuovo e a vocazione maggioritaria. Ecco,
questo sarebbe un peccato. E quasi imperdonabile.
Perché magari ha ragione chi dice che fare le correnti «dentro» un partito nuovo è un rischio mortale.
Temo però che fare le correnti «senza» un partito possa rivelarsi un destino persino peggiore.