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28 Febbraio 2006

Così le elezioni possono rallentare la ripresa italiana

Autore: Alfredo Recanatesi
Fonte: La Stampa
Le istituzioni europee si astengono da ogni iniziativa che possa
interferire, sia pure strumentalmente, nella campagna elettorale in corso in
qualcuno dei Paesi membri. Non possono fare diversamente, anche quando operano
come una autorità di garanzia contro l’evenienza che i comportamenti di un Paese
possano nuocere ad un altro, come nel caso di squilibri di finanza pubblica i
cui effetti, coinvolgendo la stabilità della moneta comune ed i suoi tassi di
interesse, si ripercuoterebbero su tutti quanti quella moneta hanno adottato.
Che la Commissione rinunciasse ad avviare una procedura contro l’Italia per
deficit eccessivo, o anche solo che esprimesse una valutazione negativa sulla
manovra di aggiustamento realizzata con la legge finanziaria per l’anno in
corso, era dunque cosa del tutto scontata. E tuttavia la Commissione, anche per
mettere al riparo la credibilità delle sue risoluzioni, non ha mancato di
individuare, nelle prospettive dei conti pubblici italiani, «incertezze
significative» dovute – come ha poi precisato il Commissario Almunya – alla
verifica della effettiva realizzabilità dei risparmi di spesa, che la legge
finanziaria ha preventivato. Ma, se questa è l’argomentazione tecnica, il
Commissario non ha taciuto anche una argomentazione politica connessa alle ormai
imminenti elezioni. Queste non sono viste da Bruxelles come il passaggio
fisiologico di ogni democrazia, ma come fattore di ulteriore problematicità per
gli aspetti che maggiormente interessano le istituzioni europee ed i nostri
partners. Per almeno due motivi.

Il primo è che il populismo, che finora sembra essere la principale
connotazione del confronto elettorale, è premessa di un ulteriore deterioramento
dei conti indipendentemente dal vincitore. È vero che un conto sono le promesse
elettorali, e ben altro è l’azione di governo. Ma nell’attuale caso italiano,
entrambe le coalizioni si stanno vincolando in una misura che non può non
suscitare apprensione. La coalizione uscente, infatti, ha già dimostrato che,
pur di non contraddire gli assunti sui quali aveva ottenuto la maggioranza dei
consensi, non esita a compromettere gli equilibri della finanza pubblica, a far
crescere il debito, e ad erodere quasi interamente l’avanzo primario che
costituisce la garanzia di sostenibilità di quel debito. La coalizione sfidante,
dal canto suo, è ancor più composita della prima per cui rischierebbe di
frantumarsi non appena accennasse, sia pure sotto la pressione dello squilibrio
dei conti, a sterzare verso una politica di rigore.

Il secondo motivo è il corollario del primo. La prospettiva di persistenti
e magari anche più accentuate criticità nella finanza pubblica genera quella di
un aumento della pressione fiscale; anzi, più ritarda l’aggiustamento e più la
prospettiva si consolida. Fino a quando la pressione fiscale non aumenterà in
modo da rendere certo il nuovo scenario operativo, o fino a quando un aumento
non verrà escluso in modo credibile, sarà improbabile che la domanda, sia di
consumi che di investimenti, possa ritrovare slancio per sostenere una crescita
più robusta. Ma se la crescita non ritrova vigore, l’aggiustamento dei conti
pubblici sarà politicamente ancor più impraticabile, e così il cerchio si chiude
per definire una impasse, se non una spirale di declino, che le posizioni e la
natura delle coalizioni che si confronteranno il 9 aprile non solo non sembrano
in grado di risolvere, ma prospettano addirittura di aggravare. È singolare come
da Bruxelles certe cose si riescano a vedere con una chiarezza difficilmente
riscontrabile nelle analisi passionali e partigiane di casa nostra.