16 Maggio 2005
Corse e rincorse, la terza sfida
Autore: Tommaso Padoa Schioppa
Fonte: Corriere della Sera
L’Italia è come un ciclista capace di straordinarie rincorse per raggiungere il gruppo, ma incapace di una gara di testa o di andare in fuga. Sembra che solo l’angoscia del ritardo e l’incubo della squalifica riescano a infonderci l’energia e la volontà necessarie per dare il massimo. Straordinaria fu la rincorsa del benessere , con cui negli Anni 50 e 60 raggiungemmo i livelli di vita che Francia, Germania, Belgio, Olanda avevano da generazioni. Notevole fu quella della stabilità , che ci condusse nell’euro. Stiamo ora perdendo quella dell’ eccellenza . Una nuova malattia sembra infatti entrare nella fase acuta: la fiacchezza senile, insinuatasi da circa dieci anni, nella società prima e più che nell’economia. I dati sulla crescita, sulle esportazioni, sulla produttività, sulle nascite mostrano la gravità dello stallo. Forse è recessione; certo è stagnazione e declino. Come nell’immediato dopoguerra, così anche oggi c’è un Paese da ricostruire, rovinato non dalle bombe ma da prolungate omissioni, miopi populismi e familismi nell’affrontare questioni fondamentali: istruzione, innovazione, ricerca, riconoscimento del merito, legalità, manutenzione delle istituzioni, giustizia, infrastrutture pubbliche, senso dell’impresa. Le droghe del cambio e del fisco hanno infiacchito non solo l’economia, ma anche la politica economica e perfino il modo in cui la classe dirigente guarda al futuro.
Che la fase acuta del male venga a una fine di legislatura non giustifica un rinvio della cura o addirittura l’assunzione di nuove droghe fiscali nella speranza di raccogliere voti. Misure energiche e coraggiose sono possibili anche nella massima precarietà politica. Fu così nel 1947, quando De Gasperi ed Einaudi raddrizzarono l’economia senza nemmeno una maggioranza parlamentare e alla vigilia dell’elezione più incerta e drammatica della storia repubblicana. Soprattutto nei momenti difficili, il consenso segue, non precede, le scelte forti: rem tene, laudes sequentur.
Bisogna riandare al 1998, l’anno del successo e dell’occasione perduta. Nel maggio 1998 l’Italia concluse il risanamento del bilancio e la stabilizzazione monetaria: una rincorsa durata circa 15 anni, culminata nell’ultimo decisivo esame triennale per l’ingresso nell’euro. Il conseguimento di quell’obiettivo valse un radicale mutamento del giudizio su di noi, del quale fui testimone e beneficiario. Politici e osservatori stranieri, anche i peggio disposti, ritennero che l’Italia fosse davvero cambiata, divenuta finalmente – per stabilità economica e politica – un Paese come gli altri. Invece qualcosa si spezzò subito. Mancò la capacità di sostituire alla stabilità un nuovo e accattivante obiettivo di eccellenza. Mancò l’ambizione nazionale di coronare la lunga rincorsa con una gara di testa nel gruppo che avevamo così brillantemente raggiunto.
Le abusate categorie dell’ottimismo e del pessimismo – così come il disgraziato slogan «pessimismo della ragione, ottimismo della volontà» – sono fuorvianti. Non è pessimismo sottolineare la gravità del momento; non è ottimismo nasconderla. In cinque-dieci anni l’Italia può ricostruire il suo sistema scolastico e di ricerca, può ripristinare il rispetto e la fiducia nella legge, può migliorare le amministrazioni pubbliche, può attirare i suoi giovani scienziati e operatori economici ora all’estero, può divenire la meta ambita d’investimenti esteri. Sono tutti obiettivi interamente alla nostra portata, capaci di mobilitare le energie e la fiducia dei giovani, di restituire certezza. Nessuna maledizione storica ci perseguita. La ragione ci dice che un esito favorevole è possibile, la volontà (cattiva) lusinga la pigrizia suggerendo che sia irraggiungibile.