Nel pieno della sua popolarità e al massimo del consenso politico, sia a destra che a sinistra, Carlo Azeglio Ciampi si fa da parte e non accetta la ricandidatura per il Quirinale. È un gesto molto poco italiano, questa capacità di rinunciare ad un plebiscito parlamentare che lo avrebbe visto eletto già lunedì, al primo voto, con l´applauso convinto delle due Camere. Un gesto che il Presidente motiva con una ragione intima (la preoccupazione di non avere l´energia necessaria per quel compito, vista l´età avanzata) e una ragione istituzionale: la repubblica non è una monarchia, dopo un lungo settennato anche il vertice dello Stato ha bisogno di un ricambio, in democrazia nessuno è indispensabile.
Di tutto questo bisogna essere grati al capo dello Stato. Di non aver timore di rivelare una sua fragilità possibile, dovuta soltanto al procedere dell´età, in un´epoca di mascheramenti e ritocchi; di sottolineare l´utilità di cambiare e rinnovare le più alte cariche dello Stato, impegnando forze nuove, contro la sclerosi di apparati e istituzioni; e infine, e soprattutto, di saper passare la mano in un momento di grande popolarità e di grande presa sul sistema politico, con un atto di responsabilità e di eleganza istituzionale. Non è poco, soprattutto di questi tempi. Come era facile prevedere, era giusto partire da Ciampi, dopo il successo di questo settennato. Ma adesso, dopo il rifiuto del Presidente, non ci sono più alibi, rifugi e riserve. Comincia la corsa vera e le forze politiche sono di fronte alla loro responsabilità politica ed istituzionale, com´è giusto che sia, davanti ai cittadini. Dunque è il momento, nella confusione delle voci e degli intenti, di fissare pochi punti chiari, per quel che può fare un giornale.
Il centrosinistra ha vinto le elezioni, dunque ha il diritto-dovere di avanzare la candidatura o le candidature che saprà scegliere, facendo l´apertura di gioco. Ma il centrosinistra deve saper cambiare gioco, rispetto alle presidenze di Camera e Senato. Non è più questione di 2 o 3 a zero. Qui si tratta della suprema magistratura della Repubblica, simbolo costituzionale dell´unità del Paese, garante al di sopra delle parti. Occorre dunque che sulla sua scelta (perché le compete) il centrosinistra sappia e voglia coinvolgere le forze di opposizione, cercando un consenso più ampio del suo perimetro parlamentare, non per ragioni numeriche, ma per ragioni di ordine istituzionale e politico. Nella sua dichiarazione di indisponibilità al rinnovo, d´altra parte, Ciampi sottolinea il valore della «convergenza di parti politiche diverse» sul suo nome come disponibilità «a quel civile confronto che è premessa e condizione indispensabili – ricorda – della saldezza delle istituzioni e quindi della salute della Repubblica».
È lo stesso Presidente, dunque, che invita ad un metodo di confronto e convergenza che dia forza all´istituzione presidenziale. Ma se la maggioranza ha i suoi doveri, anche la minoranza ha degli obblighi. Mentre invoca la condivisione della scelta, non può infatti per coerenza logica e politica continuare a disconoscere la vittoria del centrosinistra e dunque il suo legittimo diritto a condurre il gioco del confronto, con l´indicazione delle candidature: Berlusconi che continua a proporre il nome di Letta, ad esempio, si muove nello schema irreale di un pareggio che non c´è stato, anzi di una prevalenza numerica del Polo che non esiste né tra i dati del Viminale né in Parlamento.
Nello stesso tempo, il diritto della minoranza di prendere parte alla designazione non è un diritto di veto. Così non si capisce perché il neosegretario dell´Udc possa sostenere «l´obbligo di un nostro veto a un esponente comunista». Né si comprende come Berlusconi, e ancor più Fini, possano invocare Dio, perché «non voglia che il Quirinale vada alla sinistra». Dio non tornava in campo, per fortuna, dal 1948: e nel frattempo, tra l´altro, ha assistito all´ascesa istituzionale di Fini, senza che nessuno da sinistra invocasse i suoi fulmini.
Non c´è spazio per veti, dunque, né per scomuniche fuori tempo. Le forze politiche che siedono in Parlamento, oggi, hanno tutte titolo per ricoprire responsabilmente cariche istituzionali: e il Polo lo sa bene, visto che ha addirittura fatto ministro Calderoli. La condivisione di una candidatura proposta dal centrosinistra nascerà dunque da una moral suasion incrociata, un tentativo di convincimento reciproco, e anche una capacità di offrire e pretendere garanzie trasparenti, pubblicamente riconoscibili, in difesa di interessi istituzionalmente legittimi. L´insistenza del Polo a negare il diritto della sinistra di scegliere tra le sue file il candidato da proporre ad un concorso di forze più ampio può soltanto portare ad una rottura, con la conseguente scelta della maggioranza di votarsi il suo candidato con i suoi voti, se saprà e potrà farlo.
Questo gioco incrociato di regole si troverà di fronte, con ogni probabilità, il nome di Massimo D´Alema, come prima scelta del centrosinistra. Diciamo subito che D´Alema ha pieno titolo, politico e personale, per rientrare in questo schema. È vero che è un capopartito, e non un personaggio per età e per inclinazione al di sopra delle parti. Ma ha avuto responsabilità politiche di forte impegno nazionale, come la guida del governo, e ha mostrato un forte spirito istituzionale e una capacità non comune di dialogo quando era alla testa della Bicamerale, per cercare nuove regole condivise. È, potremmo dire, un bipolarista convinto della necessità di una modernizzazione costituzionale del sistema, su base concordata: un profilo che può essere utile e adatto alla fase incerta che si apre con la legislatura e il settennato.
Nello stesso tempo, D´Alema è un nome che divide, nel Paese e nel Palazzo, ha nemici anche nel centrosinistra che conosce la sua forza, e ha qualche ammiratore nascosto nel centrodestra, che però l´ha usato come spauracchio simbolico per mobilitare il suo elettorato in tutte le ultime campagne. Può dunque attirare franchi tiratori a sinistra, e bloccare la destra al di là delle sue convenienze di avere un garante forte al Quirinale. E tuttavia tocca a lui, a quanto pare, fare da apripista, sapendo che nella riserva ci sono i nomi di Amato e di Marini, ma che una sua sconfitta può essere sanguinosa per un centrosinistra fragile, esposto e ancora senza un governo insediato.
Spetta a lui, se sarà candidato, la responsabilità di aprire il gioco con la minoranza, e muovere le sue carte per verificare la possibilità di trovare un consenso più ampio, prima di andare avanti con tutta l´Unione verso l´ignoto. Per lui, o per chiunque si trovasse al suo posto, ci vorrebbe in realtà qualcosa di più. Uno sforzo politico e culturale della sinistra, consapevole di aver vinto ma cosciente della sua debolezza, che riaffermi il suo diritto a governare fuori da ogni pasticcio e da ogni tentazione di larghe intese, ma che per il Quirinale sappia affiancare al nome del suo candidato anche una proposta istituzionale alta. Un piano di riforme condivise, un percorso di garanzia sui grandi temi costituzionali da affrontare per il riordino dello Stato, un´offerta di agibilità reciproca e paritaria sui problemi delle istituzioni, che non impegnano il governo. Insomma, un centrosinistra forte di una sua identità e di una sua cultura, potrebbe evocare un vero e proprio spirito istituzionale di garanzia nel Parlamento che si riunisce lunedì, e in questo spirito calare e spiegare la sua candidatura, quasi con un programma.
Al momento, di questo non si vede traccia. Ma anche se mancano pochi giorni, siamo ancora in tempo: anche per capire e far capire ai cittadini che non tutto è organigramma.